Rosa, cresciuta in un paesino di montagna, nella Sicilia di inizio Novecento, gentile come il suo nome eppure forte e resiliente, per sfuggire le angherie del padre burbero e manesco, scappa giovanissima con Sebastiano Quaranta, uomo semplice e buono. È amore a prima vista e un sodalizio capace di durare nel tempo, finché la guerra non si metterà di mezzo.
I due aprono un’osteria, unico luogo d’incontro dei quattro paesi del circondario e, dalla loro unione, nascono tre figli, Fernando il bello, Donato che prenderà i voti e Selma, unica femmina, delicata e ingenua, dalle mani capaci di ricami raffinati, su cui mette gli occhi Santi Maraviglia, forestiero di bell’aspetto, perdigiorno arrivato in paese da chissà dove, un inetto, meschino e opportunista, arrogante e capace di violenza verso i più deboli.
Selma lo sposa nonostante il parere contrario della madre e gli consente così di mettere le mani sulla piccola fortuna costruita intorno all’osteria, grazie al lavoro di una vita. A farne le spese saranno soprattutto le tre figlie di Selma e Santi: Patrizia, spirito ribelle e indomabile, Lavinia, bella come l’attrice Virna Lisi, e Marinella, la più piccola, la preferita dal padre, che vive la sua giovinezza negli anni Ottanta, sognando di studiare all’estero.
Le vicende di queste donne si intrecciano con quelle degli altri personaggi mentre si srotola pian piano la storia del Novecento: dalla guerra alla Repubblica, dal voto alle donne alla ricostruzione, e poi il boom economico, il cinema, la lavatrice, i formaggini Susanna, e ancora gli anni ’70, con la loro musica e l’impegno politico, De Gregori, Guccini, l’Unità, i mondiali dell’82, la morte del generale Dalla Chiesa, l’avvento dei CD che sostituiscono i vinili.
Intorno a queste donne ruotano i personaggi maschili. Fratelli, mariti, amici. Incontriamo la bontà e la disponibilità di Fernando, l’autorevolezza di Donato, l’insolenza di Santi. E poi, la particolare figura di Peppino Incammisa: un uomo sempre presente e vicino alla famiglia, seppure defilato e senza un ruolo ben chiaro. Su tutti sovrasta Sebastiano Quaranta o, più che altro, il ricordo di lui. La sua figura mite esce quasi subito di scena, ma il suo spirito aleggia per tutta la storia. Seppure comprimari in un romanzo incentrato sulle protagoniste femminili, gli uomini in realtà hanno il potere di incidere, più spesso nel male che nel bene, sulle sorti delle donne della loro vita.
Il filo che lega il romanzo è l’eredità femminile, fatta di abilità, consuetudini, pensieri ma anche di cose semplici, materiali, come le foto ingiallite del passato o la vecchia macchina da cucire Singer. Ma il filo è soprattutto la prevaricazione maschile che, seppure in forme e modi diversi lungo il passare degli anni, rimane una costante nelle vite delle donne di cui si racconta.
“Il cognome delle donne” è stato una lettura deludente. La prima osservazione è che si tratta della solita saga familiare siciliana; ho già scritto che amo la Sicilia e apprezzo le saghe, ma non sempre ci troviamo di fronte a un binomio riuscito. Se l’ambientazione siciliana si risolve nella ripetizione di cliché e stereotipi, diventa stucchevole; quanto alla saga familiare, anche in questo caso ripeto quanto già scritto in altre occasioni: le vicende di una famiglia ordinaria raramente sono ricche di grande interesse per chi legge; se si sceglie una famiglia ordinaria, perciò, l’approfondimento dei personaggi e delle loro interrelazioni, dovrà essere accurato e prevalente. Se invece mancano sia l’azione sia l’approfondimento, la lettura diventa irrimediabilmente noiosa.
Qui la trama è poca cosa, perciò lo spazio dovrebbe andare ai personaggi, e invece, anche i pochi fatti degni di nota, sono raccontati solo in superficie, senza la capacità di indagare le emozioni, i sentimenti, le paure, i pensieri, che accompagnano vicende importanti, come nel caso della conversione di Donato che si fa prete, dell’aborto di Ada la trasgressiva, del riconoscimento in ospedale di Sebastiano Quaranta o di ciò che resta di lui, da parte di Rosa o del drammatico scontro al coltello tra Patrizia e il padre.
Il titolo, l’ambientazione storica e geografica, la centralità di protagoniste donne sembrano evocare una storia di lotta al patriarcato, di riscatto contro l’oppressione maschilista e oscurantista che vuole le donne subalterne. Invece non c’è niente del genere: solo tre generazioni di femmine ordinariamente maltrattate e vessate da uomini, femmine che cercano, ognuna a modo suo e per quel che possono, di sopravvivere, quasi consapevoli dell’ineluttabilità della loro sorte di vittime. Non c’è elaborazione riguardo la consapevolezza della loro condizione o la necessità di liberarsene. Le reazioni delle protagoniste ai soprusi maschili, sono narrate nel limite dell’esperienza individuale del momento e manca la presa di coscienza tipica dei romanzi di formazione, che seguono le vicende narrate secondo la prospettiva dell’evoluzione personale.
Lo scenario storico dei primi anni della narrazione è quasi del tutto assente, mentre quello relativo agli anni più recenti, descritto attraverso i costumi quotidiani del tempo, i prodotti più diffusi, i personaggi, la musica, o eventi di spicco, è una ricostruzione molto scolastica che suona quasi forzata, specie per chi quegli anni, ahimè, ricorda per esperienza diretta.
La scrittura è scorrevole ma anonima, la trama è modesta, le pagine, in compenso, sono più di quattrocento; nel complesso un libro che non mi ha appassionato né emozionato, un compito ben fatto, ma noioso, un deja vù di poca personalità.
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