Mi piacciono le stazioni. Luoghi di commiato, terre di mezzo tra qui e altrove, tra prima e dopo.
Preferisco i treni a lunga percorrenza, quelli che portano più lontano. Mi protegge il brulichio della gente che si affretta e si passa accanto senza vedersi.
Seduta in disparte, non vista, osservo; una coppia arriva al binario in anticipo, lui ha una valigia grande, lei una sacca di tela scura. Scommetto con me stessa che non partiranno assieme, percepisco una lieve malinconia, un’aria di separazione.
Dalle loro facce cerco di capire se è un arrivederci o invece un addio. Li fisso senza discrezione, mi sforzo di leggere le loro labbra, per rubare le parole, di intercettare gli sguardi per afferrare il clima del loro saluto.
Vorrei avvicinarmi e carpire a quegli sconosciuti l’intimità di quel momento. Vorrei sentire cosa si prova. Sono una ladra di emozioni, rapino i turbamenti dell’abbandono, scippo i pensieri di separazione.
A volte non accade nulla: chi resta a terra agita la mano in segno di saluto, mentre il treno parte.
Altre volte ci sono lunghi abbracci, lacrime, singhiozzi e fazzoletti da naso; infine, lo sferragliare indifferente del vagone sui binari porta via tutto.
Mettere distanza tra sé e la vita nota, consumata dai giorni: è questo il senso di partire.
Prendo l’autobus per tornare a casa. Ci sono posti liberi, ma non mi siedo; rimango appesa alla maniglia, col braccio in alto, lasciandomi cullare dalla strada.
Quando apro la porta con la chiave, mi saluti svogliato, dall’altra stanza, senza venirmi incontro.
Anche oggi sono qui; se solo immaginassi quante partenze devo rubare, per trovare ancora il coraggio di restare.