L’ho scelto soprattutto per la copertina, come a volte mi capita coi libri: raffigura un quadro di Emilio Longoni, pittore milanese del primo ‘900, intitolato appunto “La piccinina”, che fornisce lo spunto per l’immagine e per il titolo stesso del romanzo. Nel quadro è ritratta una bambina di circa sei anni, con un vestito a balze rosa, una collana di sfere blu, e un’enorme cappelliera al braccio.
“Piscinine” è il termine dialettale milanese per indicare bambine e ragazzine, di solito provenienti dalle classi più povere, tra i cinque e i diciassette anni di età, impiegate come aiuti nei lavori più svariati, come quello di modista e di sarta, a servizio delle “maestre”, che raramente insegnavano loro davvero il mestiere, e più spesso le sfruttavano, maltrattavano e sottopagavano, costringendole in una sorta di schiavitù, nel silenzio delle famiglie che avevano un bisogno disperato anche di quei pochi spiccioli che le bambine portavano a casa. Soprattutto erano utilizzate per il trasporto, tra gli opifici tessili e le lavoranti, o per le consegne a domicilio di abiti, stoffe, cappelli e simili, nelle case aristocratiche della Milano del primo Novecento.
Nora cresce senza amore in una famiglia povera e operaia, violenta e anaffettiva. Lei è femmina, il che, all’epoca, è già un segno di minorità, ma è pure affetta da balbuzie, una vera delusione per i suoi genitori e una facile vittima della violenza dei fratelli. Nora, protagonista e voce narrante, non riesce a stare al passo con le aspettative di suo padre, un operaio socialista che la vorrebbe forte e coraggiosa, capace di leggere e di recitare una poesia in dialetto milanese che lei ha diligentemente imparato a memoria: ma, davanti al genitore e ai suoi amici, la voce non le esce, condannandola per sempre a sentirsi insufficiente e incapace. A cinque anni Nora è costretta a fare la piscinina presso la maestra Ester, che la sfrutta, la maltratta, la affama, la deride e permette che suo marito la molesti impunemente. La troviamo adolescente al tempo del racconto.
È un periodo di rivolte e scioperi, quello a cavallo tra fine Ottocento e inizio Novecento, di scontri che sfociano nei moti di Milano, a cui partecipa anche il padre di Nora, che muore durante la protesta del pane, davanti ai cannoni di Bava Beccaris, che fa sparare sulla folla inerme e affamata. Nel giugno del 1902, le bambine e le adolescenti sfruttate come piscinine decidono di ribellarsi, e si riuniscono in gruppo in una protesta che diventa un primo embrione di sciopero.
Le piscinine, che dovrebbero essere apprendiste e sono in realtà schiave sfruttate, maltrattate, e non di rado abusate, non hanno diritti. Sono bambine che lavorano sino a quattordici ore al giorno, per pochi centesimi, trascinando per la città scatole che possono arrivare a pesare anche più di loro; sono adibite a qualsiasi genere di servizio che la padrona richieda, private di qualunque dignità o tutela. Ovviamente nessuna di loro va a scuola. Unendosi alle dimostrazioni degli adulti, anche se da più parti dileggiate, con coraggio sfidano le maestre astenendosi dal lavoro, per ottenere un miglioramento delle loro condizioni di vita.
La tredicenne Giannina si improvvisa capo di questa insolita e coraggiosa protesta, che raccoglie all’incirca quattrocento bambine tra i sei e i tredici anni e suscita l’ostilità di molti, ma anche l’interesse di alcuni: il giornale socialista “Avanti!” dedica spazio a queste ragazzine che arrivano fino alla Camera del Lavoro e ai rappresentanti del sindacato per esprimere le loro richieste.
Nora, anche se quasi muta a causa della balbuzie, è una delle protagoniste coraggiose di questo evento straordinario, ma solo apparentemente la storia ruota attorno allo sciopero, perché, in realtà, a dominare il racconto, è l’universo intimo di Nora e il suo legame d’amicizia con altre due ragazzine: la bella Lisa, che sa leggere e cantare, perché, al contrario delle altre e grazie al suo aspetto, ha fatto un salto di qualità e lavora in una casa signorile, come dama di compagnia di una contessina; e la sventurata Angelica, dal destino infelice.
Ma non sono la solidarietà e l’affetto a caratterizzare questa amicizia a tre, al contrario, il rapporto è segnato da amori, gelosie, invidie, rivalità e tradimenti, soprattutto a causa del bell’Achille, di cui tutte e tre sono infatuate e che Lisa riuscirà a fare suo, a costo di una bella dose di cinismo. Ed è anche per reagire alla pesante situazione venutasi a creare con le amiche di sempre, oltre che per la ribellione contro i soprusi insopportabili che subisce, che Nora comincia a guardare a Giannina con ammirazione e decide prendere parte allo sciopero.
Ho scelto “La piccinina” perché prometteva di tenere insieme storia politica, vicende del movimento operaio, diritti dell’infanzia, problemi sociali, attraverso il racconto di un episodio poco conosciuto della storia italiana; invece ho trovato amori, sessualità precoce, violenza su minorenni indifese, promiscuità, ignoranza, degrado, famiglie violente, uomini che picchiano, deridono, stuprano, sfruttano: un’ansia di sopravvivenza quasi bestiale, un ambiente francamente insopportabile.
Il realismo in letteratura ha dato ottimi frutti, e non è certo una novità; non sto invocando un taglio più romantico della storia o uno sguardo più benevolo sulle molte nefandezze dei tempi disgraziati di cui si racconta in questo romanzo, tuttavia, la narrazione in prima persona mi pare poco adatta alla trama: scrivere dando voce e parole a una ragazzina dei primi del Novecento, non istruita e piena di complessi mi pare un’impresa improbabile, una forzatura; e qui si è andati oltre: la protagonista si sente inferiore alle amiche, non è amata in famiglia, è vittima di violenze e di tradimenti: insomma non gliene va dritta una e inevitabilmente il monologo inclina all’autocommiserazione lagnosa.
Come se non bastasse tutto il repertorio di brutture che si possono incontrare in una vita così breve (Nora è una ragazzina), si aggiunge una particolare prospettiva narrativa, che declina in una dimensione specificamente femminile tutto il negativo che narra, anche quello più intimo: così, alla schiavitù del lavoro minorile, all’anaffettività dei genitori, ai maltrattamenti delle maestre, si aggiungono la sottomissione ai fratelli, l’invidia e la gelosia nelle amicizie, l’amore non corrisposto, e poi l’ignoranza totale sul proprio corpo, le mestruazioni, lo stupro, l’aborto; e non c’è complicità fra ragazze, non c’è scambio né condivisione, tutto è lotta feroce in un mondo sporco dentro e fuori, un degrado, un abominio, davvero eccessivo, che non conosce redenzione.
La dimensione femminile ne esce sporca e tragica, senza nessun recupero possibile: dalla madre assente, alla maestra che la sfrutta e le addossa la colpa delle violenze che subisce da suo marito, all’amica che, per accaparrarsi il maschio conteso, non esita a spingere la rivale verso un futuro di rovina, l’unica cosa che Nora può apprendere, nella sua formazione all’età adulta, è che essere donna è una condanna senza appello e dalle sue simili non può aspettarsi che il peggio, dunque è irrimediabilmente e definitivamente sola, sola contro il mondo degli uomini e quello delle donne.
In tanto orrore ci si aspetterebbe un riscatto, un barlume di speranza, o almeno un personaggio positivo, un gancio in mezzo al cielo, per dirla con Claudio Baglioni, invece niente. Unico punto fermo nella vita di Nora è l’amicizia con il pittore Emilio Longoni, nel quale trova quell’affetto paterno che non ha conosciuto in casa; tuttavia un rapporto fuori dalla famiglia, tra una ragazzina e un uomo adulto, è per forza di cose una condizione precaria e intermittente, in fondo indicibile.
Ed è proprio al funerale di Emilio, trent’anni dopo i fatti narrati, che la ritroviamo, Nora, con una vita nuova che non sappiamo come si sia costruita, dopo che l’avevamo lasciata, sgomenta e devastata, in seguito alla violenza subita alla fine dello sciopero, quasi una punizione per quel temerario tentativo di alzare la testa. Il finale non ci dice molto, non è un happy end ma si limita a farci sapere che Nora è sopravvissuta, è diventata grande ed è così, nell’incertezza, che la lasciamo.
In conclusione, ho trovato questo romanzo deludente; le premesse erano interessanti, e non mancavano gli spunti narrativi, ma la lettura mi ha lasciato l’impressione di un’occasione mancata, cui si aggiunge uno stile semplicistico della scrittura, forse per fedeltà alla voce narrante di una quindicenne analfabeta di inizio ventesimo secolo, che di più rimpicciolisce gli eventi narrati a un microcosmo individuale di miserie, anziché dar vita a un racconto dal respiro più ampio e collettivo.
Lascia un commento