Sembrava bellezza


Non avevo mai letto nulla di Teresa Ciabatti e la cosa che mi ha colpito di più, in questo romanzo, è stata la scrittura. Una scrittura a scatti, graffiante, secca, asciutta, tortuosa, diretta e tagliente, una voce scomoda e potente, un flusso di coscienza inarrestabile che nulla concede ai fronzoli stilistici, ma va dritta al punto senza misericordia, lasciando un forte retrogusto amaro.

“Sembrava bellezza” è la confessione impietosa di una donna non più giovane, di professione scrittrice, che, dopo essersi sentita esclusa da tutto e da tutti per molti anni, ha finalmente conosciuto un certo successo; e a questo si aggrappa con tutte le forze, senza poter tuttavia compensare i numerosi fallimenti della sua vita privata e professionale. Il lavoro, infatti, è l’unica cosa di cui può vantarsi, mentre la sua famiglia e la sua storia emotiva sono un vero disastro. Ha divorziato dal marito che ha tradito per molti anni, e che poi l’ha lasciata per un’altra, sua figlia la odia per essere stata una madre assente, disinteressata e persino violenta, non ha veri amici e non riesce a liberarsi dei ricordi umilianti di adolescente bruttina, grassa, sgraziata e marginalizzata, in quanto non ricca come i compagni di classe pariolini.

Vive oggi, finalmente, un tempo di riscatto, che cerca di tenersi stretto con tutte le forze, ma che ogni giorno le sfugge un po’ di più, seminando angoscia. Combattuta tra risentimento e sgomento per il tempo che inesorabile si consuma, la coglie Federica, la più cara amica del liceo, bruttina ed emarginata quanto lei, che, dopo trent’anni, torna a cercarla, riportando nel suo presente anche la sorella maggiore Livia, dea di bellezza sovrannaturale, modello irraggiungibile ai loro occhi di sedicenni sgraziate, creatura promiscua e fatua, desiderata da tutti gli uomini che la incontrano, rimasta vittima di un misterioso grave incidente, che le ha lasciato un danno cerebrale permanente, imprigionandola nella mente di un’eterna ragazzina.

Come accadeva al liceo, la protagonista non sa sottrarsi alle richieste di Federica e vive la presenza dell’amica ritrovata come stimolo alla ricerca di una plausibile verità, su sé stessa e sulla propria esistenza ferita. Come un tempo, i pensieri delle due donne tornano a specchiarsi e a mescolarsi, risvegliando il passato e riproducendo un legame che si nutre dell’insoddisfazione di sé e della consolazione che si trae dalle sventure dell’altra, in un mix allo stesso tempo affettuoso e solidale eppure feroce e distanziante.

Livia, invece, era e resta un mistero insondabile: bellissima, magra e bionda, capace di ottenere dai genitori qualunque libertà, forse a causa di una gravidanza indesiderata, fu, per una volta, messa in punizione, con il divieto di uscire con gli amici e di altri divertimenti. Probabilmente incapace di sopportare la frustrazione, Livia ebbe una reazione depressiva e forse tentò il suicidio. Ma intorno al suo “incidente” regna il mistero, mentre, nonostante gli anni trascorsi, resta il miracolo di una bellezza ancora splendente, forse preservata dalla nebbia della mente. E, mentre la protagonista vorrebbe fermare l’attimo per non perdere l’effimera gloria del suo successo di scrittrice, la sorte di Livia, eterna diciottenne nel corpo di una cinquantenne, è la crudele rappresentazione di una giovinezza cristallizzata in un presente immobile.

Diciamo subito che non abbiamo qui una protagonista capace di suscitare l’empatia del lettore: nonostante il riaffiorare alla memoria di anni di rancori, di desolazione, di mancanze, di lacerazioni, che portano alla luce una fragile adolescente rifiutata e respinta, il cinismo, il disincanto e quasi la brutalità che permeano il racconto, generano in chi legge un fastidio, addirittura una repulsione, che non favoriscono l’immedesimazione, ma, al contrario, portano alla presa di distanza, anche se alcuni tratti dolorosi dell’adolescenza possono essere esperienza comune di molti adulti.

Contenuti e stile generano una certa fatica nel lettore che, prigioniero nelle spire di una narrazione insolita, talvolta sgradevole e affastellata, ma pur sempre coinvolgente, segue la protagonista in un viaggio che è insieme privato e generazionale, interiore e reale. E va dato atto all’autrice di tanta diretta franchezza, senza fronzoli, senza sconti, nel raccontare il grande dramma di essere stata un’adolescente sgradevole, sovrappeso e di pochi mezzi, e di essere oggi una donna disillusa, egoista e sola, ferocemente aggrappata a un’effimera fama che è la sua unica compensazione.

Anche se le vicende narrate e la tecnica del flusso di coscienza non costituiscono elementi di grande originalità, dal punto di vista della forma e della sostanza, “Sembrava bellezza”, per il taglio dato alla narrazione, sia per lo stile, sia per i contenuti, è un’opera che mostra se non altro una certa personalità, che non passa inosservata. Può risultare indigesta per la totale assenza di filtri e di buoni sentimenti che può suonare eccessiva o artificiosa, ma non è banale.

Non siamo abituati a parlare di relazioni umane col distacco freddo e a tratti feroce che troviamo in questo romanzo, specie in alcune parti, come, per esempio, quelle che riguardano il rapporto disastroso della protagonista con la figlia o la frustrazione sessuale derivata da un corpo sgraziato e repellente, che gli altri non desiderano: ne risulta un’analisi impietosa, che strappa i veli del perbenismo e di una diffusa cultura del sentimentalismo incapace di vera sincerità.

Non nego che possa essere una lettura a tratti disturbante e, alla lunga, un poco faticosa, ma ho apprezzato lo sguardo corrosivo con cui il racconto segue un viaggio introspettivo su due diversi piani temporali, ora e allora, una lenta e tagliente presa di coscienza che, giunta alle soglie dei cinquant’anni, obbliga la protagonista a fare i conti col passato, per trovare un punto di equilibrio con gli altri e con sé stessa.

Non mi hanno invece convinto due aspetti; il primo riguarda l’eccesso di casi umani: seppure si possa riconoscere all’autrice la capacità di parlare delle donne, giovani e meno giovani, madri e figlie, amanti e amiche, tuttavia una tale totalità di situazioni personali disastrose mi pare francamente un po’ troppo.

L’altro aspetto riguarda invece il rapporto fra verità e finzione. Se, in teoria, concordo con Sandro Veronesi, quando, nella sua proposta di “Sembrava bellezza” al Premio Strega 2021, definisce fallimentare il tentativo di tenere separate, nei romanzi, verità e finzione, tuttavia la gestione di questa tematica da parte di Ciabatti non mi è parsa convincente. Da un lato abbiamo il fittizio coinvolgimento dell’autrice in chiave autobiografica, reso attraverso la narrazione in prima persona e l’inserimento di elementi reali; dall’altro, troviamo l’impiego della tecnica del “narratore inattendibile”, come, per esempio, laddove si parla di abuso sessuale all’interno della sua famiglia; entrambi gli aspetti appaiono posticci e mi lasciano perplessa: elementi di confusione che nulla tolgono o aggiungono al racconto.