Due donne


Elvira – settembre 1975

La signora Elvira Zurlini vedova Cappello si riscosse dalla sonnolenza postprandiale, si infilò gli occhiali che le pendevano sul petto appesi a un cordoncino colorato e distinse nitidamente le lancette della sveglia sulla credenza, al lato opposto della stanza. Aveva ancora un po’ di tempo. Si alzò faticosamente dalla poltrona in velluto blu pavone, ch’era stata di suo marito buonanima, e ciabattò fino alla cucina. Tutto era pronto.

Si trascinò in bagno, sulle pantofole di feltro da cui tracimavano i piedi deformati dall’artrite. Lo specchio le rimandò la solita immagine ordinaria che non aveva mai amato, nemmeno in gioventù, figuriamoci adesso; si disse che, una volta sistemati i capelli, sarebbe andata meglio e prese a smontare, uno alla volta, i bigodini rosa che le coprivano la testa, liberando man mano le ciocche arricciate.

Il vestito l’aveva deciso da settimane: lo chemisier bianco e blu faceva sempre la sua figura e del resto non era facile infilare il suo corpo ormai straripante in un pezzo di stoffa che avesse delle cuciture, bisognava accontentarsi. Ma ci teneva a fare una buona figura, perciò avrebbe passato un poco di rossetto sulle labbra e di cipria sulle guance, senza esagerare; più tardi però, c’era ancora tempo.

Da quando suo marito era morto, le occasioni per vedere gente si erano via via diradate e si era abituata alla vita schiva e ritirata a cui, del resto, l’inclinava la sua natura. Sul lavoro era stato diverso, almeno i primi tempi; le pareva di sostituirlo, come se dovesse ritornare da un giorno all’altro, e lo faceva con l’orgoglio e la fermezza che aveva ammirato in lui; ma, negli ultimi anni, aveva finito col delegare sempre di più, fino a rimanere poco più che una figura di rappresentanza. Era giusto così, del resto, era tempo di mettersi in pensione.

Erano stati una coppia serena, lei e suo marito, una coppia nata già vecchia. Si erano incontrati tardi, dopo una lunga attesa e si erano riconosciuti subito. La guerra li aveva travolti proprio all’inizio della storia ed erano diventati presto più parenti che amanti. Ma andava bene così.

Quando l’aveva conosciuto, Alberto era un quarantenne di bell’aspetto e umore malinconico, avviato a una brillante carriera universitaria, a cui aveva dovuto rinunciare, dopo la morte del padre, per portare avanti la tipografia che aveva fatto la fortuna della famiglia. Ma in tempo di guerra non si fanno buoni affari.

Lei sognava di insegnare al liceo e intanto si arrangiava con le lezioni private; aveva fatto, per la tipografia, qualche lavoro di traduzione. Era così che si erano conosciuti, trovando l’uno nell’altra una specie di ultima occasione.

Figli non ne erano venuti, del resto erano troppo avanti con gli anni; la loro creatura era la tipografia, nella quale, finita la guerra, avevano investito tutte le energie, dapprima col modesto obiettivo di rimettersi in piedi, poi pensando a ingrandirsi.

Elvira non aveva mai desiderato la vita della moglie e della madre ed era grata al marito che l’aveva coinvolta nel lavoro, tenendo in considerazione le sue idee e condividendo con lei la passione per la carta stampata, di cui amava tutto, a cominciare dall’odore.

I ricordi più dolci che conservava della loro vita insieme non erano i viaggi che si erano concessi non appena le finanze gliel’avevano permesso, erano piuttosto le discussioni di lavoro, talvolta accese, che la facevano sentire importante.

Era stata un’unione a suo modo perfetta, fino al maledetto capodanno del ‘56. Contrariamente alle loro abitudini riservate, avevano accettato l’invito a un veglione a casa di conoscenti. C’era la musica, lo spumante e lei indossava un bell’abito nero con lo scollo profondo. Pochi minuti prima che l’anno nuovo avesse inizio, Alberto si era accasciato a terra, frantumando la coppa di spumante che teneva in mano, stroncato da un infarto.

Elisabeth – aprile 1922

Avevano trascorso gli ultimi giorni senza lasciarsi mai, mentendosi per la gran pena, e fingendo di credere che, in fondo, nulla avrebbe impedito a lei di tornare in Italia, o a lui di raggiungerla negli Stati Uniti. Si erano scambiati le informazioni necessarie per rimanere in contatto, perdendosi negli abbracci e giurandosi amore eterno.

Eppure, lei sentiva una specie di presentimento in fondo alla pancia, qualcosa le diceva che non si sarebbero rivisti. Allora gli prendeva il volto fra le mani e gli baciava la bocca guardandolo negli occhi: il suo amore italiano, il suo Bert, come amava chiamarlo, anche se non era il suo nome. Come avrebbe potuto vivere senza di lui?

La nave salpò da Genova il 18 aprile 1922, ma il commiato da Milano era avvenuto già la settimana precedente; era stata la Pasqua più triste di sempre e, durante il viaggio, Elisabeth aveva iniziato a scrivere la prima lettera.

La traversata era stata interminabile e l’America, all’inizio, l’aveva odiata. I lunghi giorni in mare erano stati un intenso e continuo ricordare.

Elisabeth era nata il 19 ottobre del 1900 a Como, da padre americano e madre italiana; lui era un funzionario del Commercio Estero presso il Consolato a Milano; lei, di famiglia agiata e molto nota, era una pianista d’eccezione.

Dal padre Elisabeth aveva ereditato il pragmatismo e una certa consapevolezza di sé, dalla madre aveva preso tutto il resto, a cominciare dalle doti musicali e da una sensibilità tutta italiana. Per i suoi studi al Conservatorio a Milano, i genitori le avevano trovato una sistemazione adeguata in città.

Ricordava benissimo il suo arrivo a Villa Sofia e la gentilezza un po’ invadente della contessa Fedora Baldi Orlandini, che si adoperava per favorire legami sociali tra i selezionati pigionanti che ospitava, più per capriccio che per denaro, nella sua immensa casa. Bert gliel’aveva presentato qualche settimana dopo e lei aveva capito subito che sarebbe stato per sempre. Da allora c’erano stati solo giorni di festa, come se la gioia che si davano potesse ingoiare tutto il resto.

L’improvvisa notizia del richiamo del padre in America era stata come un pugno in faccia: inaspettata e dolorosa. La gioia era sparita, solo a tratti sembrava non volersene andare e rimaneva appiccicata alle dita, come una colla, e faceva ancora più male.

Elvira – gennaio 1956

Tre settimane dopo il funerale era arrivata la prima lettera. In un primo momento aveva pensato che si trattasse di tardive condoglianze, ma si sbagliava, dato che il destinatario era proprio Alberto; francobollo e timbro postale erano stranieri, e fu con qualche scrupolo, per non fare torto al morto, che finalmente si decise ad aprire la busta e leggere. Una, due, tre volte; ebbe bisogno di leggere ancora e ancora per poter prendere atto che si trattava di una donna, una donna che scriveva dagli Stati Uniti, si firmava con una svolazzante “E” maiuscola e parlava a suo marito con la confidenza di un’amante.

Un’amante? Negli Stati Uniti? L’impossibilità di pretendere dall’interessato le necessarie spiegazioni le parve una beffa del destino, acuì il senso ineluttabile e gelido della morte di Alberto, e le tolse il sonno, obbligandola a fare i conti con la sua irrimediabile e definitiva assenza.

Per un giorno e due notti, senza dormire né mangiare, rovistò la casa da cima a fondo, in preda a una febbre fredda, in cerca di un indizio, una prova, qualunque cosa che potesse aiutarla a capire cosa il marito le avesse nascosto. Ma non trovò nulla. Soltanto all’alba del secondo giorno, quando ormai si teneva in piedi solo per ostinazione, un vecchio baule conservato in soffitta, con maniglie troppo lustre in tutta quella polvere, rivelò infine un grande cartone contenente altre lettere. Elvira le affrontò con lo spirito del condannato.

Erano decine, conservate in meticoloso ordine cronologico, intercalate dalle minute delle risposte di lui. L’intera storia clandestina documentata sotto i suoi occhi. Solo per un istante le passò per la testa di buttare tutto nel camino, accendere un bel fuoco e tenersi stretto il ricordo del suo Alberto. Ma la curiosità fu più forte del bisogno di proteggersi.

Si accinse alla lettura con l’attitudine incrollabile ma rassegnata del malato terminale. Scoprì che l’altra si chiamava Elisabeth.

Elvira avrebbe forse dovuto sentirsi sollevata, in fondo era poco più di un ricordo, un’antica amicizia ingentilita dalla memoria della giovinezza. Non si erano neppure mai scambiati fotografie, onorando un preciso accordo tra loro; si poteva ben dire che non si conoscessero più. Ognuno aveva portato avanti la propria vita. Nel 1926 lei si era sposata con un americano e avevano avuto tre figli. Elvira e Alberto, invece, si erano sposati più avanti, nel 1939. Ma la corrispondenza non si era mai interrotta.

Nelle lettere raccontavano poco o nulla delle loro vite, si accaloravano invece sulle vicende di politica e di attualità o si intenerivano su un ricordo.  Elvira lesse fino all’ultima riga, nonostante l’umiliazione che la piegava: si sentiva derubata di qualcosa che avrebbe dovuto essere suo.

La meticolosa archiviazione, più di tutto, l’offendeva: aveva un che di sacro che le sbriciolava il cuore, ma la coltellata più dolorosa era la scrittura del marito, così tenera, così palpitante, un linguaggio dell’anima che non gli conosceva, e la trafiggeva di una gelosia tanto inutile quanto feroce. Sentì che, per continuare a respirare, doveva fare sua quella storia, impadronirsene e possederla per sempre, se voleva evitare che la uccidesse.

Elisabeth – febbraio 1956

Aveva odiato l’America che l’aveva divisa dal suo amore italiano, ma poi la vita l’aveva afferrata per il collo trascinandola via con sé; può succedere, a vent’anni. Arrivarono nuove amicizie, nuove esperienze e poi un Richard Walker dalle ottime intenzioni; i suoi baci non somigliavano a quelli italiani, ma erano cerotti sul suo cuore ferito. Si era sposata in fretta, prima di cambiare idea, ma il coraggio di scriverlo a Bert l’aveva trovato solo molto tempo dopo, temendo di perderlo per sempre. Lui, invece, aveva capito e, quando era arrivata la sua occasione, aveva fatto altrettanto.

Col tempo, il cuore aveva smesso di sanguinare, ma non di battere. La guerra era stata una parentesi angosciosa in cui le notizie dall’Italia le mancavano come l’aria e solo le rare lettere che riceveva le restituivano il respiro. Aveva smesso di farsi domande, si diceva che a lui, in qualche modo, ancora ci teneva. Tutto qui. Era l’illusione di tenersi stretti i sogni dei vent’anni, o forse la vanità dei quaranta, ma a Bert non voleva rinunciare.

Dopo gli sconvolgimenti di guerra, la corrispondenza aveva ritrovato il suo ritmo, lento, ma regolare. Accadde invece, all’inizio del 1956, che l’attesa si prolungasse oltre il solito, togliendole la pace. Aveva un presentimento, si tormentava. Per fortuna, Richard, suo marito, era in viaggio per lavoro o sarebbe stato noioso dover dar conto del suo nervosismo. Da tempo il suo matrimonio si era raffreddato e a volte pensava che lui avesse un’altra, ma sentiva che non le importava.

La lettera arrivò, finalmente, alla metà di febbraio, in una giornata gelida e grigia; aprì la busta con urgenza febbrile e quello che lesse le tolse il fiato. Con tono accorato ma sereno, Bert raccontava che sua moglie era morta dopo una breve malattia. Non pareva sconvolto, anzi, a volerla dire tutta, il tono sembrava quasi sollevato.

Rispondere era stato molto difficile: non poteva limitarsi alle condoglianze, ma nemmeno chiedere dettagli sul decorso e il decesso della moglie o indagare sul suo lutto; le pareva indelicato. Dal canto suo, lui raccontava di un certo senso di solitudine; non faceva richieste, non parlava di viaggi, o di incontri, ma Elisabeth aveva avvertito, con una punta di eccitazione, il vago sentore di una possibilità.

Da allora le lettere dall’Italia avevano pian piano ritrovato i toni appassionati dei primi tempi, e per lei era iniziata una nuova giovinezza. Si era sentita di nuovo elettrizzata e vitale, dopo un tempo lunghissimo in cui era rimasta come assopita; aspettava la posta con l’impazienza di un’adolescente e divorava avidamente tutte quelle parole stampate, che, in omaggio ai più innovativi impianti della tipografia, avevano preso il posto di quel corsivo inclinato e preciso che avrebbe riconosciuto fra mille.

Quando si comincia a invecchiare, gli anni prendono la pessima abitudine di volare via veloci come uccelli nel cielo. Con Richard le cose non erano andate né avanti né indietro; dopo qualche anno lui si era messo in pensione, si occupava del giardino e passava ore sul divano, a guardare le partite. Lei dava qualche lezione di pianoforte, leggeva romanzi e si annoiava. I figli si erano fatti grandi, si erano sposati, era diventata nonna. L’antico amore italiano era un pensiero che le teneva una tenera compagnia.

Nei primi tempi della vedovanza, Bert era stato assiduo e appassionato, ma non aveva mai accennato alla possibilità di un viaggio negli Stati Uniti e un poco le dispiaceva. Ma la vita non smette mai di sorprenderci e, quando la storia sembrava ormai destinata all’oblio della memoria, fu lei, improvvisamente, a rimanere vedova. Non aveva mai desiderato la sua morte, ma, quando suo marito Richard lasciò questo mondo, Elisabeth non ebbe che un solo pensiero. Tornare in Italia. Poteva rimandare ancora, ma, prima o poi, sarebbe partita.

Elvira – febbraio 1956

L’idea era venuta dal nulla per non andarsene più. Era una follia e poteva non funzionare; si sarebbe resa ridicola. Aveva vergogna di sé, le pareva un’indegna manovra, ma poi si vedeva a muovere i fili, non più vittima ignara e ingannata, ma regista di quella storia che non avrebbe dovuto esistere. Il dolore e la rabbia erano un unico grumo nel petto e non le permettevano nessuna indulgenza.

Non c’era ragionamento razionale che le offrisse un’unghia di sollievo e tutta la vita con Alberto le appariva ora sotto un’altra luce, pallida e lontana; a volte le pareva di non riuscire a ricordare, come fosse la memoria di un’altra donna.

Il momento della risolutezza alla fine arrivò, lasciando indietro dubbi e rovelli. Si immerse nelle parole fra i due amanti con l’istinto del predatore: doveva mordere, azzannare, non c’era posto per la compassione.

Sarebbe diventata Alberto; non quello che lei aveva amato, no, un altro uomo, che le pareva il personaggio di un libro: c’era un abbozzo nella sua mente, un’idea, non più di qualche tratto, ma lo avrebbe plasmato lettera dopo lettera, il protagonista di una storia inventata. Avrebbe usurpato il suo posto nel cuore di quella donna e, da vittima, sarebbe diventata carnefice, da povera marionetta a burattinaio.

Quando si sentì pronta, prese carta e penna e buttò giù una minuta; inventarsi la morte della moglie le parve sottile e opportunamente crudele: avrebbe generato nell’altra il necessario filo di speranza. Rilesse e limò il testo per giorni, sostituendo parole, correggendo qua e là, riguardando gli originali per copiare un termine o un modo di dire e alla fine, soddisfatta, trascrisse a macchina, magnificando le virtù della modernità per giustificare l’abbandono del corsivo. In fondo era a capo di una tipografia, la cosa era dunque credibile.

L’invio della lettera segnò l’ineluttabile. Certo, in qualsiasi momento avrebbe potuto sparire senza una riga, ma l’idea di quella sconosciuta che avrebbe bevuto le sue parole come ambrosia, pensando a un vecchio amore lontano, le faceva bene al cuore.

Elisabeth – settembre 1975

Prima di allora non aveva mai volato. Esordire con un viaggio intercontinentale a settantacinque anni ormai prossimi, poteva certo apparire una decisione avventata. Specie considerando che avrebbe viaggiato da sola. Ma lei non aveva voluto sentire ragioni: era il suo regalo di compleanno e non avrebbe rinunciato per nulla al mondo; era tempo che tornasse, finalmente, nella sua Italia. Così, il 6 settembre 1975, alle 6.45 ora locale, si era imbarcata sul volo TWA New York – Milano Malpensa.

Aveva salutato figli, nuore e nipotini, che fino all’ultimo avevano cercato di trattenerla, con un trasporto commosso che gli stessi avevano trovato un po’ melodrammatico, o molto italiano, come spesso dicevano, ridacchiando tra loro dei suoi modi. Ma gli ignari Walker e congiunti non potevano sapere che la signora Elisabeth non aveva nessuna intenzione di tornare.

Il decollo le aveva procurato una ridarella nervosa che aveva nascosto per la vergogna agli altri passeggeri, ma poi si era perdonata. Cosa c’è di male in fondo a non conoscere l’aereo? Non tocca solo ai giovani di scoprire cose nuove. Passato il timore iniziale, e presa una certa confidenza con le sensazioni del volo, si rilassò. Sapeva che i ricordi le avrebbero tenuto compagnia.

Negli ultimi anni, Bert le era parso invecchiato; nelle sue lettere sembrava sereno, è vero, ma non parlava mai del futuro, come se non lo vedesse più; a volte temeva che potesse sentirsi solo e provava un’infinita tenerezza, pensando a tutta la vita che era passata fra loro, senza poterli dividere del tutto.

Aveva aspettato quel viaggio con molta speranza e una grande eccitazione, ma ora che il suo desiderio diventava realtà si sentiva incerta. Bert era nel suo cuore per sempre, coi suoi vent’anni allegri e il suo amore ardente; non era sicura di voler incontrare un anziano signore sconosciuto, di voler condividere l’inevitabile tramonto, di rischiare di annegare nel rimpianto e nella nostalgia. Non era più tanto sicura.

La signora Elisabeth Belladonna vedova Walker si fermò all’imbocco della strada e individuò la casa; era gialla, con un piano rialzato e la scala di pietra, precisa a come l’aveva tante volte immaginata. Sul muretto del giardino, due gatti dormivano al sole.

La signora Elvira Zurlini vedova Cappello guardò con soddisfazione il tavolino apparecchiato per il tè e, sul pavimento, il cartone con tutte le lettere che Alberto aveva conservato. Sulla credenza, invece, vent’anni di lettere scritte da lei. Non ci sarebbe stato bisogno di troppe spiegazioni, l’altra avrebbe capito. Si sentì di colpo sollevata. In cucina il bollitore cominciò a fischiare. Da dietro le tendine bianche sbirciò la strada e la vide. Stava ferma in lontananza e guardava la casa. Era lei, non c’era dubbio. Pensò che doveva essere stata una bella donna, da giovane, pensò che adesso non le importava più.

Elvira spense il fornello e si sistemò il vestito sul petto con le mani; da un momento all’altro il suono del campanello avrebbe spezzato il silenzio del primo pomeriggio. E la storia avrebbe avuto il suo finale. Si mise in attesa, torcendosi le mani impaziente. Quando i minuti le parvero troppi, guardò fuori di nuovo. Scostò la tenda, girò la testa da una parte e poi dall’altra: la strada era deserta, Elisabeth non c’era più. Appoggiò la fronte al vetro della finestra e rise.