Rileggere un classico


I promessi sposi, per me, è il primo mattone che non si scorda mai, al quale dichiaro fieramente il mio amore, consapevole di appartenere a una minoranza.

È un romanzo storico, corale, ponderoso, con approfondimenti colti, scritto in una lingua curatissima, più volte rimaneggiata dall’autore che infine si risolse al famoso risciacquo dei panni in Arno, scegliendo la parlata fiorentina. La trama, stringi stringi, è la storia di due giovani popolani costretti ad affrontare la protervia del male, che vinceranno solo grazie alla loro innocenza e alla fede, traendone un profondo insegnamento morale. Ciò che dà coerenza al gran numero di suggestioni (storiche, letterarie, religiose, pedagogiche, etiche, civili ecc.) offerte dal romanzo è il ruolo che l’autore si è riservato: tecnicamente un narratore onnisciente, terzo rispetto al racconto, ma spesso palese, una presenza assidua e benevola, che tutto chiosa e commenta, con studiatissimo garbo, talvolta con ironia, talvolta con paternalismo, porgendo la storia al lettore e quasi parlandogli direttamente.

La chiave di lettura che trovo sempre attuale è la conoscenza profonda che il Manzoni mostra di quel “guazzabuglio del cuore umano” di cui parla, non da psicologo moderno, ma da arguto conoscitore dell’animo nostro: proprio quell’educazione alle relazioni e ai sentimenti che oggi s’invoca da più parti, in questo, come in altri casi, felicemente mediata dalla letteratura. Certo, come tutte le opere, va contestualizzata nel suo tempo, di scrittura e di ambientazione, ma sembra che il romanzone non goda oggi di grande apprezzamento, forse in ragione del ruolo di “romanzo dell’obbligo” che ancora riveste nelle nostre scuole. Lascio ad altri il dibattito sull’opportunità o meno di mantenere I promessi sposi nei programmi scolastici, e, dal canto mio, invito alla sua lettura o rilettura: ci troverete dentro l’ironia, la saggezza, l’erudizione e la felicità narrativa.  E un affresco sofisticato e arguto del nostro carattere nazionale.