La macchia


Comparve una mattina nebbiosa di fine novembre. Prima non c’era e un momento dopo era lì; grande come un tavolino da salotto, leggermente iridescente, la macchia galleggiava sul fiume che scorreva placido intorno senza spostarla.

I cittadini se ne accorsero quando il cielo cominciò a schiarire e qualcuno prese a fermarsi sull’antico ponte romano, che univa le due parti del paese, da est a ovest, ed era il monumento più importante del territorio, tanto che venivano anche da fuori per vederlo. «Non ci sono fabbriche, qui» diceva uno, «non possono essere liquami.» «Ma il fiume viene giù da nord,» ribatteva un altro, «e lassù, hai voglia fabbriche, ce ne saranno mille; è sicuro lo sversamento di qualche industria.» Qualcuno si limitava a fissare la macchia con disapprovazione, altri scuotevano il capo.

A metà mattina arrivarono i tecnici del Comune con le loro giacche catarifrangenti: erano in tre, fecero qualche foto, presero qualche misura col metro a laser e poi si fermarono anche loro con gli altri a osservare il fiume, ma faceva un freddo cane e dopo un po’ se ne tornarono in municipio.

A ora di pranzo, l’inquietudine si era diffusa per tutto il paese e, oltre al capannello sul ponte, la gente cominciava a fermarsi anche lungo l’argine destro, quello che dava verso il centro e le case.

Nel primo pomeriggio arrivò sul posto l’assessore all’ambiente e al territorio, per rilasciare una dichiarazione pubblica sull’increscioso fatto, accompagnato dall’operatore della TV locale, con tanto di microfono e cinepresa. «Sicuramente trattasi di residuo di lavorazione industriale proveniente dagli insediamenti del nord», disse sforzandosi di ricordare il testo che aveva mandato a memoria, «ma non c’è motivo di preoccupazione, si tratta di una macchia isolata e di dimensioni modeste, non abbiamo ragione di credere che ne possano seguire altre; l’amministrazione è comunque allertata e ci saranno presto nuovi aggiornamenti.» Infreddolito ma soddisfatto, l’assessore riguadagnò il tepore dell’auto del Comune e se ne andò, impaziente di riscaldarsi le mani sul termosifone del suo ufficio.

Ma la gente non era contenta; tutti scuotevano la testa contrariati e protestavano a mezza bocca che la cosa non era chiara, che non si doveva far finta di niente, che non si poteva andare avanti così. Nemmeno il gelo della serata li dissuase dal presidiare la zona e solo a notte inoltrata il ponte ritornò deserto. Ma la calma durò poco.

Prima dell’alba, le sirene della polizia squarciarono il silenzio, tirando giù tutti dal letto. Col cappotto sopra il pigiama e il plaid sopra la testa, la gente si affacciava alle finestre per capire cosa fosse successo. Ci volle qualche ora perché trapelassero le prime notizie e infine si venne a sapere che, nella notte, la gioielleria Mazzacavallo, il negozio più bello di tutto il paese, era stata ripulita come un osso nel piatto del cane, e non c’era rimasto nemmeno un anellino, ma non avevano rotto neanche un vetro, erano entrati dalla porta d’ingresso e l’allarme non aveva suonato.

La cosa era sospetta e i proprietari, i coniugi Mazzacavallo, una così bella coppia, erano stati condotti in commissariato per accertamenti. Lì, pare fossero arrivati alle mani, fra loro e coi poliziotti che cercavano di separarli, accusandosi reciprocamente del furto per farla in barba all’assicurazione, ma i gioielli non saltarono fuori e i signori Mazzacavallo vennero entrambi messi in prigione.

Intanto la macchia rimaneva al suo posto e andava aumentando la curiosità e l’inquietudine della gente; il ponte era sempre più affollato e, su entrambi gli argini, capannelli di persone sostavano per tutto il giorno, scambiandosi commenti, scuotendo la testa e resistendo al freddo.

Nel primo pomeriggio si vide di nuovo arrivare la macchina del Comune; questa volta era il signor sindaco in persona, tutto imbacuccato in uno sciarpone di lana perché aveva qualche linea di febbre; ma aveva voluto farsi vedere lo stesso, per tranquillizzare la cittadinanza, che, in fondo, era suo dovere. Col naso tutto rosso per il raffreddore, disse che non c’era motivo di allarmarsi, che erano stati interpellati i tecnici della Regione, e presto avrebbero fatto un sopralluogo, per verificare la salubrità delle acque e la provenienza della macchia. Qualcuno assentiva con la testa, ma i più erano scettici: la Regione aveva tempi lunghissimi e andava sempre a finire che non si veniva mai a sapere l’esito dei loro interventi.

Nessuno volle andare a casa quella sera, e qualcuno propose di accendere un fuoco per riscaldarsi un poco; così, quando fece buio, il ponte romano e gli argini apparivano costellati dalle macchie rosse dei roghi accesi nei bidoni, per resistere in strada nonostante il freddo.

Anche l’alba del giorno dopo iniziò con le sirene della polizia che ululavano lungo la strada. Stavolta si venne a sapere che la giovane Anna Lucia, figlia dei Farabella della farmacia San Damiano, forse i più ricchi di tutto il paese, era sparita e non si trovava più. Non mancava uno spillo dalla sua stanza, il letto era intatto e non si era udito alcun rumore sospetto, ma il suo telefono risultava staccato e nessuno l’aveva più vista dalla sera prima.

Anna Lucia era una bella ragazza che aveva superato di poco la ventina, frequentava la facoltà di lettere e filosofia in città ed era fidanzata con un francese, pianista virtuoso e famoso, che aspettava solo che lei finisse di studiare per sposarla e portarla lontano chissà dove. In quei giorni aveva degli esami da sostenere all’università, poi, per le feste, sarebbe arrivato il fidanzato e avrebbero trascorso il Natale insieme; era serena come sempre e cantava come un usignolo, ma allora, dov’era finita?

I genitori erano disperati e, col permesso della polizia, reclutarono un gruppo di volontari per organizzare una ricerca a tappeto lungo il fiume e nel bosco della Falatrucca, che era così fitto e vasto che perdersi era un attimo. Ma perché Anna Lucia avrebbe dovuto andare nel bosco? E di notte poi? Non c’era un solo motivo al mondo, ma non si poteva scartare nessuna ipotesi.

Così, qualcuno abbandonò il presidio del fiume per partecipare alla ricerca, ma i più restarono lì, dicendo che non potevano lasciare la postazione, e dovevano rimanere all’erta per ogni evenienza: la macchia andava controllata. Della giovane non si seppe mai più nulla e i suoi genitori, disperati, prima chiusero la farmacia, poi si lasciarono morire di dolore.

Il terzo giorno un gruppetto di fedeli si recò dal parroco don Luigi Di Maggio, supplicandolo di uscire con l’attrezzatura e andare a benedire il fiume. Il sacerdote fece resistenza e sgridò i malcapitati, accusandoli di sciocca superstizione, ma quelli non si diedero per vinti e, stabilendo dei turni fra loro, fecero in modo che almeno una decina di persone stazionasse stabilmente sotto la canonica, recitando il rosario in segno di supplica e minacciando di non muoversi di lì fino a che il parroco non avesse acconsentito alla benedizione.

Don Luigi sapeva che avrebbe dovuto parlarne col vescovo, ma intuiva che avrebbe scatenato un gran putiferio, così, conoscendo la testardaggine del suo gregge, capì di non avere scelta, ma decise di vendere cara la pelle. Due giorni e due notti durò l’assedio alla canonica e, finalmente, all’alba del terzo giorno, il parroco uscì con gli strumenti e gli assedianti lo seguirono in fila indiana, come fossero in processione, salmodiando.

Non si sa come fu, ma, nonostante l’orario antelucano, il ponte e gli argini erano più gremiti del solito e, mentre le beghine biascicavano le loro litanie in prima fila, non mancavano neppure gli atei e gli scettici, che una benedizione non può far male a nessuno e poi non si sa mai. La cerimonia, pur brevissima, fu un successo e più d’uno cedette alle pressioni dei familiari e accettò di abbandonare la postazione sul fiume e passare da casa almeno per una doccia o per rifocillarsi in maniera decente, che mangiare in strada non è di soddisfazione.

Qualcuno si sentì rinfrancato al punto da dichiarare pubblicamente che già la macchia si stava ritirando e tra poco le cose sarebbero tornate alla normalità. Un filo di speranza parve diffondersi seppure a fatica.

Quella notte, invece, accadde il fatto più grave di tutti, anche se i cittadini ne vennero a conoscenza soltanto nella tarda mattinata del giorno successivo, quando furono trovati, in una pozza di sangue, i corpi senza vita di Annalisa Torrebianca e Angelo Arena, sposi novelli e coniugi felici agli occhi di tutti, che tanto felici non dovevano essere, se le indagini della polizia arrivarono a stabilire che si era trattato di omicidio suicidio.

La gente pareva impazzita e tutti a ripetere che in paese non era mai successo niente e sicuramente era colpa di quella maledetta macchia in mezzo al fiume, che aveva portato tutte quelle disgrazie in così pochi giorni. La tensione si tagliava col coltello e andava aumentando man mano che le poche notizie certe, sull’ultimo fatto di sangue, venivano farcite, nel passaparola, di particolari inesistenti ed esagerati che facevano sembrare i fatti ancora più tragici ed efferati di quanto già non fossero in realtà.

La tensione e la paura si andavano trasformando in rabbia, la rabbia in furore e poco mancò che i più facinorosi dessero l’assalto al municipio, accusando il sindaco di non aver protetto i cittadini. Gli animi parvero calmarsi un poco quando circolò la notizia che, l’indomani, sarebbero arrivati i tecnici della Regione, nel cui responso si riponevano molte aspettative, neanche si trattasse di un oracolo.

Così il giorno dopo, nonostante un nebbione che si tagliava col coltello, e un freddo che faceva intirizzire le dita, mezzo paese era schierato sugli argini come una guardia d’onore ad aspettare gli ordini e l’altra metà gremiva il ponte, tutti ipnotizzati dalla macchia misteriosa che galleggiava indifferente sull’acqua fredda del fiume. Si scommetteva pesante tra chi era sicuro che si trattasse di olio e chi invece propendeva per gl’idrocarburi, petrolio o forse benzina; c’era chi sosteneva di sentirne l’odore e chi dichiarava di avere visto la chiazza muoversi come se avesse le gambe.

Ci si aspettava che i regionali risolvessero il problema, forse isolando e ripescando la macchia, forse risucchiandola con qualche macchinario, forse semplicemente spingendola a valle; intanto la mattina era passata e ancora non si era visto nessuno; gli animi, già tesi, si esacerbarono.

Quando era ormai ora di pranzo, si vide all’orizzonte sbucare dalla nebbia un furgone coi colori della Regione, che parcheggiò sull’argine e sputò fuori quattro uomini imbacuccati coi giacconi d’ordinanza e coi berretti calcati sulla testa che si guardarono intorno senza capire cosa fosse quell’assembramento. Non sembravano avere fretta e, mentre quello che chiamavano ingegnere dava gli ordini, gli altri cominciarono, lemmi lemmi, a scaricare strumenti e attrezzature che sistemarono sull’argine.

Dapprima incuriosita, la gente non staccava gli occhi da loro e dalla macchia, sperando che finalmente quella brutta storia si risolvesse; ma poi, man mano che il tempo passava e non succedeva niente, il dissenso cominciò a serpeggiare tra la folla, prima leggero come un brusio, poi più forte, come un vociare rabbioso, e infine furono grida, minacce e improperi in direzione dei regionali che sembravano non sapere che pesci prendere; finché un gruppetto di esagitati si staccò dagli altri e si diresse minaccioso verso i tecnici, sostenuto con un tifo da stadio da tutti i presenti.

I malcapitati non ebbero nemmeno il tempo di rientrare nel furgone o darsela a gambe e soltanto uno di loro si salvò, perché sapeva correre veloce come una lepre. La folla inferocita si unì al gruppetto più facinoroso e, con tutto quello che avevano a portata di mano, fecero a pezzi la costosa attrezzatura che i regionali avevano predisposto sull’argine, finché non ne rimasero che i detriti.

Dal ponte gli altri applaudivano e incitavano alla violenza, agitando le braccia, gridando e saltando come indemoniati, finché il bel manufatto romano, che venivano da fuori per vederlo, non resse più a quella furia e si spezzò in due come un biscotto, precipitando nell’acqua gelida il suo carico vociante.

Fu una strage. Chi si fracassò le ossa nella caduta, chi annegò nell’acqua gelata, non riuscendo a riguadagnare la riva, chi fu trascinato a valle senza poter riemergere dai flutti, chi, per aiutare, scivolò nel fiume e fu inghiottito dalla corrente. Sotto il cielo nebbioso, si perdevano nel nulla le grida disperate dei malcapitati, i lamenti dei feriti, le urla di orrore e i pianti inconsolabili di tutti. Un inferno gelido di morte e disperazione, nel silenzio indifferente della natura morta di un giorno di fine novembre.

Quando, una settimana dopo, il sindaco prese il treno, era ancora un poco raffreddato e avrebbe fatto bene a rimanere a casa, al calduccio sotto le coperte, ma ormai aveva deciso e non voleva aspettare: non vedeva l’ora di partire e di lasciarsi alle spalle il paese e il suo tragico destino. I pochi cittadini sopravvissuti al disastro, del resto, non erano più di qualche decina, fiaccati nel corpo e nello spirito, perché non c’era uno che non avesse perso, nella disgrazia, un parente, un amico, un vicino di casa e non importava più a nessuno che in municipio ci fosse qualcuno a governare.

Al sindaco non restava che andarsene; camminava con la schiena curva, come se reggesse tutti i mali del mondo e ogni passo gli costava una fatica enorme; trascinava una valigia pesantissima che gli spezzava il braccio, ma prendere il treno gli pareva l’unica via di salvezza.

Nel cielo finalmente terso e senza nebbia, splendeva un sole giallo e beffardo; l’aria era frizzante e limpida; il fiume scorreva placido a valle con le sue acque cristalline. La macchia era sparita.