La magia delle parole


«Chi parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti!», ammoniva Nanni Moretti, nel suo celebre film “Palombella rossa”, anno 1989. Purtroppo lettera morta.

La parola non è soltanto lo strumento per comunicare con gli altri, ma anche il mezzo per incidere sulla realtà, per crearla e trasformarla.

Nella Genesi, Dio chiede all’uomo di dare un nome agli animali e alle cose, attribuendogli un potere sul creato, di cui pure è parte.

Nelle pratiche religiose più arcaiche, nei canti apotropaici, negli scongiuri, nelle profezie, negli incantesimi, alla parola è attribuito il potere creativo di rendere reale ciò che è nominato, di esorcizzare il male evitando di dargli un nome, di agire insomma sulla realtà.

La parola è al centro della capacità umana di conoscere il mondo e trasformarlo e numerose sono le scienze e le discipline che si sono occupate e si occupano delle parole, da punti di vista anche molto diversi, generando una mole sterminata di studi per chi avesse curiosità e desiderio di approfondimento: a cominciare dalla filosofia e dalla letteratura, per continuare con la psicologia e la linguistica, e, soprattutto, con la temibile triade semantica, semiotica e semiologia, di cui i più millantano, mentendo, di avere chiara la differenza, ma evitano accuratamente di farsi coinvolgere in conversazioni al riguardo. E io fra loro.

Oggi anche le neuroscienze ci confermano che le parole creano i mondi dentro ai quali ciascuno di noi vive, creano le mappe mentali attraverso cui facciamo esperienza della realtà, creano e continuamente modificano le nostre relazioni con gli altri.

Dovremmo aver capito che le parole sono importanti, invece la battuta di Nanni Moretti suona ancora come l’ironia un po’ arrogante dell’intellettuale. Le parole, ma figurarsi.

La verità è che usiamo le parole con sciatteria, con poca consapevolezza, senza renderci conto del potere che hanno. Per non dire del linguaggio pubblico, sempre più vuoto, sguaiato e violento, capace di costruire una realtà a sua immagine e somiglianza, vuota, sguaiata e violenta, nella quale poi ci tocca vivere.

Quando insegnavo, capitò una volta che facessi notare a uno studente come, durante l’interrogazione, sarebbe stato opportuno evitare di dire “casino”; il mio intento non era un’inutile pedanteria sul tema del turpiloquio, essendo, peraltro, “casino” una colpa decisamente lieve. Volevo invece sostenere l’importanza di saper utilizzare registri diversi in occasioni diverse. Insomma, quando si parla con la prof, niente volgarità. Scoprii che in classe nessuno sapeva perché “casino” potesse ritenersi un vocabolo volgare; così trascorremmo un’allegra mattinata in cui io facevo l’etimologia delle parolacce più diffuse e loro si sganasciavano dalle risate. Fu divertente e in fondo, chissà, forse anche utile.

Le parole meritano attenzione; proliferano libri e studi sulla comunicazione, esistono facoltà universitarie, si fanno corsi di formazione nei luoghi di lavoro, eppure si vedono sempre più spesso persone che ringhiano, incapaci di comprendere che si condannano a vivere in un mondo ringhioso.

Qui non si tratta di fare i cólti o i difficili, di salvare il congiuntivo o la consecutio temporum, ma, più prosaicamente, di accettare una semplice verità: parole di sterco creano inevitabilmente un mondo di sterco. E io non voglio viverci.

La buona notizia è che non siamo destinati necessariamente a soccombere, perché, per fortuna, è vero anche il contrario: le parole belle fanno il mondo più bello. Dobbiamo ricordarcelo. Sempre. Non esiste una magia come quella delle parole.

Intanto vi lascio queste, da leggere lentamente e assaporare come un cioccolatino.


Una parola muore
appena detta,
dice qualcuno.
Io dico che solo quel giorno
comincia a vivere

(Emily Dickinson)

Temo un uomo di poche parole
temo un uomo che tace
l’arringatore – posso superarlo
il chiacchierone – posso intrattenerlo
ma colui che pondera
mentre tutti gli altri spendono tutto ciò che hanno
di questo diffido
temo che egli sia grande.

(Emily Dickinson)