L’ultima notte


I passi rimbombano sul marmo dell’atrio, come spari di fucile; un attimo di silenzio, forse un’ultima esitazione, poi la porta d’ingresso si chiude e siamo finalmente soli.

Quando diventano adulti, i figli percepiscono i genitori come irrimediabilmente vecchi: allora ti parlano lentamente e con un tono incerto tra protettivo e affettuoso, mentre i loro occhi si riempiono di una tenerezza che sconfina nell’apprensione, non si sa mai che tu possa sentirti un po’ confusa. Ma come vi permettete, dico io, neanche fossi millenaria! «Mamma, ma sei proprio sicura? E se dovessi aver bisogno di qualcosa? Non vuoi che resti?» No, cara, sono sicura, non avrò bisogno di nulla e non voglio che resti.

Ho mandato via tutti, compresa Alina, la badante tuttofare. Siamo solo io e te. Mi accendo una sigaretta e mi siedo sul divano. I figli avrebbero voluto la camera ardente con tanto di veglia funebre, magari presso i locali di una di quelle agenzie specializzate che spuntano come funghi e fanno soldi a palate, perché la morte, si sa, è un business sicuro. Ma io sono stata irremovibile, ho fatto la vedova inconsolabile e ho preteso che ci lasciassero in pace, qui, soli in casa, io e te per quest’ultima notte.

Domattina ci sarà il funerale e amici, parenti e conoscenti faranno la fila davanti al libro delle firme con l’aria mesta che la circostanza richiede, con gli abiti e gli occhiali scuri, parlando sottovoce tra loro, neanche avessero paura di svegliare il morto. Ma per ora ti tengo qui con me, per un’ultima chiacchierata. Ho fatto sistemare i mobili per fare spazio e adesso, al centro della sala, troneggia il tuo catafalco con la bara aperta, dentro cui riposi azzimato e curato, come se facessi un sonnellino prima di un consiglio d’amministrazione.

Ho sempre trovato macabra l’usanza di toelettare i morti per farli sembrare ancora vivi, mi sembrerebbe più naturale un bel sudario bianco sulla nudità del corpo ormai avviato alla dissoluzione, ma non si può, lo so, le usanze, il decoro, le ferree regole sociali.

Ho sacrificato tutta la vita dentro la gabbia della forma, rigida come la crinolina, soffocante come un busto troppo stretto, a cominciare da quel primo incontro con la tua augusta genitrice, che doveva essere solo un tè fra signore, e invece poco ci mancò che mi prendesse le misure come dovesse cucirmi un vestito; ma superai l’esame brillantemente e fui ammessa alla seconda prova, un pranzo questa volta, alla presenza del tuo severo padre.

Sembrano ricordi di un tempo lontanissimo, e invece è passato giusto un soffio di vento. Il giudizio dei tuoi risultò moderatamente positivo, ma privo di vero entusiasmo e fu con qualche sospiro di rassegnazione che mi concessero di diventare tua moglie. Avevano sperato di meglio e io ce la misi tutta per farli ricredere. Sapevo benissimo che non sposavo soltanto l’uomo, ma mi toccava il pacchetto completo: la famiglia, il blasone, l’impero economico; eppure all’inizio fu gioia pura.

Ti ricordi? Eravamo così innamorati, così giovani, così sciocchi. Avevi il sorriso ironico e lo sguardo tenero, eri pazzo di me ma ti trattenevi, non volevi farti vedere innamorato, ma io lo sentivo il tuo sentimento, e mi riempiva di orgoglio.

Mi sembra di vederci adesso, qui, seduti accanto a me sul divano, due ragazzi felici e un po’ incoscienti, con davanti una vita piena di promesse. E sono state mantenute, non possiamo lamentarci, in fondo siamo stati più fortunati di molti altri. Ma in cambio la vita si è presa il suo tornaconto. Vorrei dire che ci ha portato via il tempo, ma sarebbe banale, perché l’esistenza di noi tutti non è che un conto alla rovescia, la sabbia nella clessidra che ci misura, impietosa, i respiri concessi. No, non è questo, quello che ci ha tolto è la limpidezza, il nitore, la trasparente delicatezza del nostro sentire.

Gli anni hanno accumulato, sulle nostre vite, scorie, sedimenti e detriti che hanno prima imbrattato, poi incrostato, infine ricoperto del tutto, come bitume, la purezza del nostro stare insieme: giorno dopo giorno, piccoli non detti, piccoli dispiaceri, piccole finzioni hanno finito per seccare la linfa che ci nutriva come fossimo una pianta e ciò che un tempo avrebbe ferito la nostra sensibilità, ora appena lo percepivamo come un graffio insignificante sulla pelle, fino a non sentire più nulla del tutto. Ci si abitua, è vero.

Questo è il momento della verità, Enrico, l’ultimo che ci è dato e non possiamo gettarlo via. Rigiro la fede intorno all’anulare. Ci vorrebbe una bella rivelazione adesso, prima di uscire di scena, che so, un figlio segreto, un vizio infamante, uno storno di fondi, una vita parallela. E invece. Il tempo mi ha assuefatto a tutto, a perderti per dissolvenza, lasciando correre qualcosa ogni giorno e, quel ch’è peggio, non ho mai davvero sofferto, non ti ho mai odiato, anzi, in fondo, a modo mio, non ho mai smesso di amarti.

Ti ho diviso da subito col tuo lavoro; dirigere aziende e subentrare a tuo padre nella gestione del patrimonio di famiglia è stato un impegno colossale, specie i primi tempi; come avrei potuto negarti il mio appoggio? Oppormi agli orari impossibili, ai viaggi, alle assenze? Nel frattempo erano arrivati i gemelli e avevo il mio bel daffare. Quando ti guardavo giocare con loro, nei nostri rari momenti di intimità familiare, rivedevo l’autenticità dei nostri primi tempi e mi commuovevo, ma erano solo barlumi, attimi passeggeri.

Già era arrivata, nel frattempo, Caterina Tondi, tua giovane e rampante collaboratrice, ma che dico? Insostituibile braccio destro, una cavallona bruna, poliglotta e plurilaureata, esperta di marketing, pubbliche relazioni e molto altro, pronta a rinunciare alla propria vita privata per affiancarti nella scalata al successo; del resto, cosa le costava? Lei ti aveva molto più di me. Da allora ti sei diviso equamente fra noi: io, coi figli, la famiglia e gli amici da una parte, lei e il lavoro dall’altra. Fino all’ultimo giorno, fino al tuo funerale, quando si presenterà in lutto, ne sono certa, a ricevere le condoglianze proprio come una moglie.

E io? Non sono fatta per le scenate e per le vendette. Del resto, non hai mai smesso di fare il marito, in tutti i modi che sai, solo che tu avevi due mogli e io, invece, un grande vuoto. Mi sono dedicata ai figli, ho coltivato le amicizie, ho letto molti libri, frequentato salotti, teatri, concerti; ho anche avuto qualche corteggiatore sfacciato e, perché negarlo, qualche tentazione irresistibile. Ma non l’ho fatto. Non sono andata con un altro uomo.

Però avevo bisogno di aria. Di un luogo solo mio dove risvegliare la donna assopita che mi sonnecchiava dentro; c’entrava l’anima, certo, che chiedeva vita e amore, ma c’entrava anche il corpo, dimenticato dalla tua indifferenza, dalla tua abitudine. E un giorno, per caso, l’ho trovata, la mia aria, ascoltando le chiacchiere di una conoscente, cui prestavo orecchio distrattamente, per buona educazione.

Ma occorreva la massima discrezione per far fiorire la mia inconfessabile passione, e mi sono adoperata in tutti i modi perché il mio segreto rimanesse al sicuro, inventando negli anni scuse diverse per i miei impegni plurisettimanali ed evitando con cura le occasioni pubbliche in cui, anche involontariamente, certi gesti, certi movimenti avrebbero potuto svelare il mio celato talento. Non ti sei mai accorto di nulla, tu, da tempo, del resto, disinteressato a come trascorrevo le mie giornate e a quale fiamma mi brillasse in fondo agli occhi.

Se potessi rispondermi, ora ti obbligherei a indovinare, sicura di poter ridere del tuo fallimento, perché ciò che ha ridato vigore ai miei giorni, ciò che mi ha permesso di rimanere nei rigidi ranghi della mia vita esteriore negli ultimi lunghissimi trent’anni è una danza, sì, una danza che ha il suono sensuale e struggente del tango. Proprio così, Enrico, hai capito bene, il tango è stato la mia nuova vita e la mia trasgressione.

Ora, se non avessi le palpebre chiuse per sempre, sgraneresti gli occhi incredulo: il tango? Quelle mosse ieratiche e lascive, quei passi complicati, quegli sguardi infuocati? Tu? Ammettilo, non ci avresti mai pensato. Un altro uomo nel mio letto, forse, qualche volta, non senza un certo disappunto, l’hai creduto possibile, per poi subito allontanare il pensiero come un insetto fastidioso, ma il tango no, il tango era fuori dalla tua immaginazione; per questo l’ho voluto, studiato e amato con tutta me stessa, fino a diventare la tanghèra raffinata che sono, anche se condannata, finora, a brillare solo nelle segrete stanze.

Il tango mi ha risvegliato a nuova vita. É stato come innamorarmi di nuovo, sentire la mia carne nuovamente calda, guardarmi allo specchio, riconoscermi e amarmi. Vorrei dirti che sono da sempre l’amante del mio maestro, ma mentirei, anche se conosce il mio corpo come nessun altro e il suo abbraccio mi accende come nessun amplesso.

Il tango mi ha reso forte e libera, mi ha restituito il corpo che tu avevi lasciato ingrigire nell’indifferenza di abbracci frettolosi e stanchi e che io, da sola, non sapevo ritrovare. Mi ha ridato energia, dignità e vigore, voglia di vivere. Certo, per discrezione, per rispetto del nome che porto e della famiglia non ho mai potuto danzare in pubblico; sono stata tentata, lo ammetto, ho fantasticato di nomi d’arte e improbabili mascherine per nascondere il viso, ma poi ho rinunciato, mi sono sacrificata ancora una volta. L’ultima.

Per questo, non appena farà giorno, prenderò un aereo, destinazione Buenos Aires. Con Michele, il mio maestro, siamo diventati grandi insieme e, anche se oggi siamo entrambi prossimi ai settanta e non abbiamo mai fatto l’amore, da tanto tempo sogniamo l’Argentina e le sue milonghe.

Potevo risparmiarti questa rivelazione? Al contrario, caro, non potevo e dirtelo è il mio ultimo gesto d’amore, il mio commiato, il mio addio. Di nuovo tutto è chiaro fra noi, come deve essere, ora e per sempre. Ti guardo. Sei ancora tu, nonostante le guance scavate e i capelli diradati sulla fronte, nonostante il colorito grigiastro che il cerone inutilmente cerca di dissimulare; ma la piega della bocca è la tua e anche le mani magre e lunghe, che mi hanno toccato, accarezzato, ghermito. Le tue mani.

Non ti accompagnerò nell’ultimo viaggio, come si dice; al tuo funerale, domattina, non ci sarò. I figli, per salvare le apparenze, faranno sapere che la vedova ha avuto un mancamento, non se l’è sentita. Il primo sgarro di una lunga vita di domestica acquiescenza. Certo, avrei potuto partire fra una settimana, fra un mese o anche due, ma ho bisogno come l’aria della mia prima imperdonabile violazione.

Addio Enrico, mio amato, fai buon viaggio. Ci ritroveremo un giorno, ma per ora resto, ho ancora da fare qui, devo vivere in fretta, la sabbia nella clessidra scorre, ma, volteggiando nel tango, io non lo saprò.

Cammino veloce come se avessi trent’anni, trascinando il mio trolley, finché il taxi mi inghiotte e fila veloce verso l’aeroporto. Il cielo ha i colori incantati dell’alba. Presto sarà giorno e i figli troveranno il mio messaggio nei loro telefoni, saranno sbigottiti e increduli, si chiameranno per condividere il loro sgomento, per concordare una versione ufficiale. Li lascio a terra. Ad ali spiegate, finalmente, sorvolerò l’oceano.

Così il buio sarà la luce e la quiete la danza.

( verso tratto da East Coker dalla raccolta “Quattro quartetti” di T.S. Eliot)