Uvaspina


“Uvaspina” è il romanzo di esordio di Monica Acito, pubblicato da Bompiani nel 2023.

Protagonista della storia è il giovane Carmine Riccio, pallido e delicato femminiello, nato con una voglia sotto l’occhio sinistro, che ricorda l’uvaspina, il frutto da cui viene il suo soprannome, che lo identifica con la sua macchia.

Uvaspina è capace di abituarsi a tutto: a suo padre Pasquale Riccio, notaio di scarsa competenza e pochissimi scrupoli, che si vergogna di lui; a Graziella detta la Spaiata, sua madre, che ha incastrato Pasquale Riccio con le sue arti di malafemmina e chiagnazzara (la prefica che piange per denaro ai funerali), e oggi non si dà pace di aver perduto il suo fascino e finge di morire ogni volta che il marito esce di casa.

Ma soprattutto Uvaspina è abituato alla sorella Minuccia, abitata, fin da bambina, da un’energia selvaggia e incontrollabile, che la trasforma in uno strummolo, la trottola di legno con la punta di ferro, che tutto travolge e colpisce, capace di esplosioni imprevedibili, di gesti violenti, che sa attaccare la fragilità del fratello, cui la unisce un legame viscerale, feroce e primitivo.

D’indole docile e gentile, Uvaspina si fa spremere da tutti, come il frutto di cui porta il nome. Non contesta la madre, quando gli chiede di stare in disparte, di lasciar perdere; non si ribella al padre, che lo umilia con la sua indifferenza, non reagisce ai continui soprusi della sorella che lo chiama «femminiello» come i suoi compagni di scuola.

Minuccia, invece, fa il bello e il cattivo tempo, si prende tutto lo spazio, intimidisce chiunque, compresi i genitori, con il suo impeto travolgente, con l’umore volubile e tempestoso, con le sue vendette da fattucchiera. Intuisce i sogni e i segreti di Uvaspina, e approfitta della sua ritrosia per schiacciarlo, spolparlo e ridurlo a un’ombra, in un sadico esercizio del potere e della sopraffazione.

Sarà l’incontro con Antonio, il pescatore dagli occhi di colori diversi, che legge libri e non ha paura del sangue, che sa navigare fino a Procida e ridare speranza a un ragazzo che dubita di sé stesso, a rendere Uvaspina più sicuro di sé, e attraverso un’iniziazione all’amore e alla sessualità, a fargli sperimentare la passione e la capacità di sognare una vita migliore.

La purezza del loro incontro, però, non potrà nascondersi a lungo nelle grotte di Palazzo Donn’Anna: è una passione assediata dallo scherno del mondo e dai richiami di una realtà fatta di ombre molto più che di luci.

Sullo sfondo, o, meglio, proprio dentro la storia, ribolle una Napoli magica e misteriosa, madre amorevole e matrigna crudele, con i suoi monumenti, le chiese, le piazze, i palazzi, coi vicoli bui, fetidi e sporchi, con le sue storie, le sue leggende, di re, di regine, di pescatori, soprattutto col suo mare, che la fronteggia, la penetra e la avvolge.

Monica Acito trascina il lettore con una scrittura viscerale, tagliente, cruda, a volte cattiva, un impasto linguistico che mescola italiano e dialetto, che ha qualcosa di arcaico e di mitico, un linguaggio diretto e primordiale, efficace a rappresentare in modo vivido e colorito i suoi personaggi e le vicende che raccontano. É difficile separarsi dalla storia, è impossibile non provare il desiderio di consolare Uvaspina per le infinite umiliazioni, o di punire Minuccia per la sua inutile crudeltà. 

Il tema dell’ambiguità e della forza dell’amore fraterno è centrale nel racconto: Uvaspina e Minuccia, nati dall’unione del notaio Riccio, che rappresenta la Napoli borghese e benestante, con la Spaiata, che invece viene da Forcella, rione popolare, sono buio e luce, sacro e profano, amore e odio, estremi che si attraggono e si respingono, uniti da desideri comuni e dalla capacità di leggersi nell’animo, ma invidiosi e gelosi, l’uno dell’altra, fino alla crudeltà.

L’unico rischio che vedo, per questo romanzo d’esordio, è di essere troppo; leggendolo, ho provato l’impressione di una storia letteralmente esplosa nella penna dell’autrice, se mi si passa la metafora, una storia che, come fosse stata compressa a lungo, una volta liberata, schizza dappertutto, e il lettore, volente o nolente, ne resta imbrattato, e viene trascinato in una sorta di spaesamento, in una realtà deformata, dove sono persi i riferimenti di tempo e di luogo, perché anche Napoli, pur così presente, è raccontata come un’immaginazione, come una metafora.

C’è qualcosa di profondamente perturbante e ossessivo nella ridondanza della materialità, descritta nei suoi aspetti più sordidi e crudi, carne, miseria e sangue, umori e odori che continuamente ci ricordano il lato animale del nostro essere vivi e che caratterizzano una Napoli fuori dal tempo, reale eppure inventata, nata dalla coda di una sirena, Napoli città cancrena, notturna e malafemmena.

Uvaspina è un romanzo che ti cattura e ti riempie di emozioni, che ti prende all’amo facendoti vagheggiare il bello, il buono, il puro, che prima o poi arriverà, te lo fa intravvedere, desiderare e annusare da lontano, ma intanto le pagine scorrono e, come un miraggio, il riscatto non arriva e tu resti inchiodato fino alla fine, a chiederti se resta ancora viva la speranza.