Arrivare in anticipo è la maledizione degli ansiosi. La puntualità me l’hanno inculcata da piccola, con la virtù dell’esempio, senza bisogno di tante parole: non ricordo che se ne sia mai parlato in famiglia, semplicemente si dava per scontato che il ritardo non fosse un’opzione. Del resto i miei non sono mai stati gente flessibile.
Il problema di chi arriva in anticipo è che inizia a irritarsi prima del necessario. Consultare di continuo l’orologio non aiuta, quando sei arrivato hai capito subito di essere il primo. E la contrarietà non può che aumentare, fino a diventare spiacevole, perché, in fondo, si tratta di una mancanza di rispetto. Potresti, per una volta, arrivare in ritardo anche tu, ma i puntuali non ne sono capaci. E non conta di quanti minuti si tratta. In fondo, pensi, non è quello a fare la differenza: avrebbe potuto arrivare in anticipo come me. Invece non arriva.
Mi accenderei volentieri una sigaretta, ma sto cercando di smettere e poi, per strada, non è educazione. Anche questa non so dove l’ho imparata, ma di sicuro viene da lontano. I miei genitori fumavano come camini e le stanze dove rispettivamente si rinchiudevano nei pomeriggi noiosi di festa, quando ero piccola, una coi libri e la radio, l’altro con la televisione, diventavano antri infernali, bolge maleodoranti, invase da una nebbia impenetrabile, esalata da posaceneri ricolmi oltre che da polmoni genitoriali anneriti dalla nicotina. «Perché, che c’è?» rispondevano con la stessa espressione insieme stupefatta e innocente, se io o mio fratello, affacciandoci all’uscio per chiedere cosa c’era per cena, ci lasciavamo sfuggire qualche commento sulle condizioni atmosferiche del luogo. Perfetti tabagisti, negazionisti del loro vizio.
Però per strada mai e neanche in macchina, figurarsi, fumare in macchina era fuori discussione. E quando una cosa era fuori discussione, semplicemente veniva cancellata dalla realtà. Solo un folle avrebbe potuto perdere tempo con qualcosa ch’era chiaramente fuori discussione.
Sta cominciando a piovere e non ho l’ombrello. Potrei spostarmi di qualche metro e approfittare del portico, ma in mezzo al traffico e al via vai dello shopping del tardo pomeriggio di venerdì, quando arriva, capace che non mi vede, così resto ferma a lasciare che la polvere d’acqua che scende dal cielo mi arricci i capelli perfettamente lisciati nella messa in piega.
Ho sempre avuto i capelli mossi, ma per mia madre la categoria dei capelli mossi era ontologicamente inammissibile, essendo in famiglia presenti solo capelli lisci, come i suoi, o capelli ricci come quelli di mio padre e mio fratello. Mossi mai. Banali riflessioni sull’esito della combinazione dei cromosomi nella riproduzione erano semplicemente fuori discussione. Non è che si potevano aggiungere categorie di capelli così, come se niente fosse; perciò, fin da piccolissima, i miei capelli indiscutibilmente mossi venivano stirati in una coda di cavallo così stretta che mi si allungavano gli occhi fino alle tempie e gli altri bambini mi prendevano in giro perché sembravo una cinese.
Quando ho avuto l’età per ribellarmi, ho ingaggiato lotte all’ultimo sangue ogni sacrosanta mattina per sottrarmi all’odiata coda di cavallo, finché mia madre, sfiancata dalla mia pervicacia, mi concesse due vereconde treccine: non mi piacevano granché ma la sera, quando me le scioglieva, poteva affermare con soddisfazione che i capelli si erano ondulati a causa dell’intreccio e non certo perché fossero mossi di natura, figurarsi, la cosa era fuori discussione. E a me pareva bellissimo che si fosse trovata una soluzione così elegante per un problema così spinoso.
Non so perché ho voluto incontrare Rossella, perché l’ho cercata, perché ho accettato, su sua proposta, l’improbabile reunion di questa serata, alla quale, a quanto pare, lei è in ritardo. Me lo sono chiesta spesso negli ultimi giorni e mi sono venute in mente parecchie ipotesi che ho volutamente accantonato. Io sono una che pensa troppo, dovrei evitare. Così ho dato la colpa al caso; in effetti mi sono imbattuta in rete nel suo nome, e l’ho riconosciuta subito, anche se adesso ha una specie di nome d’arte e si fa chiamare Rossa Termidoro; per me rimane la Ross, conosciuta alle scuole medie in quanto intrepida compagna di banco di mio fratello, più grande di me di due anni, temperamento rivoluzionario, sorriso aperto e intrigante, tette inesistenti, intelligente e libera.
Intrepida, perché mettersi in banco con un maschio non era cosa usuale, ma, al contrario, una scelta trasgressiva e a lei piaceva provocare. Allora è nata la nostra grande amicizia, con tutti gli alti e bassi inevitabili che può avere una storia lunga tanti anni, dalle medie alla laurea e oltre. Ma ultimamente, da almeno un decennio a dire il vero, non ho avuto sue notizie e non ci vediamo da più di vent’anni; sapevo che si era trasferita all’estero, che aveva intrapreso una brillante carriera nel mondo della pubblicità, che non mi aveva più cercato. Né io avevo cercato lei. Ma quando ha risposto alla mia email e poi ci siamo sentite al telefono, mi ha fatto piacere e quando ha detto che sarebbe rientrata in Italia per qualche giorno mi è parso un segno del destino e così, adesso, la sto aspettando da più di un quarto d’ora sotto la pioggerella che si fa più fitta, mentre i miei capelli si fanno sempre più umidi e mossi e mi guardo intorno senza saper immaginare come sarà rivederla.
Arriva in taxi ma per fortuna ha l’ombrello, anzi una specie di ombrellone da spiaggia, coloratissimo, sotto il quale mi ospita, tenendomi a braccetto, finché non arriviamo al ristorante. Il contatto fisico resuscita l’antica confidenza e sembra che non ci siamo mai lasciate. Il viso è quello di sempre, solo un poco segnato dagli anni; non ha un filo di trucco e i capelli sono rasati quasi a zero, sembra un elfo del Signore degli anelli. É tutta in nero, pantaloni e tacchi bassi, un trench lungo quasi fino ai piedi, una borsa immensa. Non si può dire che manchi di personalità.
Improvvisamente, con le mie pumps firmate e la mia clutch da sera mi sento un po’ oca: io ho bisogno di orpelli, a lei basta essere sé stessa. Come sempre è un fiume in piena, solo un poco trattenuta dalla difficoltà logistica del nostro spostamento a piedi, con annesso ombrello, nel caos di un venerdì sera autunnale. Ma non appena ci sediamo al tavolo del ristorante non si tiene più.
Mi copre di complimenti per quanto mi trova in forma, poi comincia a raccontare di sé, con l’entusiasmo che sa mettere in tutto quello che fa. Non ricordavo come mi faceva sentire e non sono sicura che questo incontro sia una buona idea. Anch’io ho fatto una carriera di cui non posso lagnarmi, ma qualsiasi successo, qualunque risultato non può competere con l’intensità della sua vita straordinaria che sa raccontare così bene.
Mi dico che, non appena riuscirò a prendere la parola, le dirò di Andrea, del divorzio, della mia vita senza marito, della mia bambina ormai cresciuta, così brava a scuola, così determinata eppure piena di grazia, con la sua ginnastica aerea, con le sue gambe lunghe. Non sono novità e la separazione risale ormai a quasi otto anni fa, ma lei non lo sa e forse riuscirò a rubarle la scena almeno per qualche minuto, portandola su un terreno che non la vede protagonista, lei che una famiglia non l’ha mai voluta, e neppure legami stretti, lei che ha investito tutto soltanto su di sé. Mi sento un po’ miserabile con questi pensieri che mi attraversano, ma mi perdono, mentre lei continua a fare tutto in una volta, parla, ride, mangia e versa il vino.
Rossella è stata la quarta in ordine cronologico. La quarta e ultima a cui, da piccola, avevo deciso di assomigliare. Dopo Raffaella Carrà, la supplente in prima elementare e la Previdi, che era a scuola con me e mi contendeva il titolo di più brava della classe, ma quello, a me, non importava; ciò che adoravo di lei erano i vestitini con la gonna arricciata e il corpetto a nido d’ape, i capelli biondi e lisci e gli occhiali da vista, che mi parevano sommamente eleganti.
Quando dico che avevo deciso di assomigliare a qualcuno, non parlo di un capriccio infantile, al contrario era una cosa serissima. Perché, quando mi guardavo allo specchio, io vedevo il nulla. Il nulla assoluto. Mi guardavo ma non mi vedevo, anche se restavo lì a osservarmi con tutta l’attenzione di cui ero capace, non riuscivo a individuarmi. L’immagine mi pareva ingannevole e falsa, frutto della luce, della prospettiva. Allora mi spostavo davanti allo specchio e muovevo le mani sul viso, sperando che i movimenti trascinassero il mio riflesso nella realtà, ma non succedeva, guardarmi non mi trasformava in una bambina vera.
Mi sentivo indefinita e indefinibile, come se il mio corpo fosse privo di consistenza e di contorni, non riuscivo a vedere i miei tratti, non sarei stata in grado di descrivermi, pur essendo dotata di parlantina sciolta e proprietà di linguaggio fin da molto piccola. Non capivo chi ero, non mi riconoscevo. Era una cosa che non sapevo spiegare, ma mi riempiva di angoscia, un’angoscia senza nome, che peggiorava se, maldestramente, mi lasciavo sorprendere durante una di quelle frustranti sessioni di osservazione.
Mio fratello si limitava a prendermi in giro con la crudeltà dei maschi primogeniti, ovvero senza pietà, ma, in fondo, era inoffensivo; con lui potevo reagire e portare lo scontro sul piano fisico, cosa che funzionava sempre, perché lo distraeva dalla ragione scatenante del dissidio e perché spesso attirava l’attenzione del genitore più prossimo che, con fare esasperato, interveniva a separarci, addossandogli tutta la colpa perché era il più grande.
Molto peggio se a sorprendermi allo specchio era mia madre; credo ritenesse altamente immorale che una bambina di sei anni si crogiolasse in comportamenti vanitosi, probabilmente attribuendomi i pensieri di una preadolescenza precoce e, ignorando il mio dramma esistenziale, mi invitava a tornare ai miei giochi. Già, mia madre. «Quello che è mancato è stato lo sguardo materno» ha detto una sera di tanti anni fa la mia psicologa, «lei non ti guardava e tu non riuscivi a vederti.»
Comunque sia andata, io mi sono battuta per esistere e, intorno ai sei anni, di fronte all’assoluta insussistenza del mio essere, la mia minuscola coscienza ha escogitato un espediente intelligentissimo. Se non ero in grado di esistere come me stessa, sarei stata un’altra persona: l’avrei studiata e imitata fin nei più piccoli particolari, mi sarei costruita un’identità alternativa, coll’indiscutibile vantaggio di poter scegliere chi volevo diventare.
Alla prova dei fatti, purtroppo, la cosa non risultò così semplice. Innanzi tutto mancavano i modelli e questo spiega Raffaella Carrà. La televisione era arrivata in mio soccorso e quella donna giovane e ballerina, con gli shorts, l’ombelico scoperto e il ciuffo che si rimetteva in piega da solo, nonostante i ripetuti e violenti scuotimenti della testa, mi piaceva proprio tanto. Mi pareva libera e felice, aveva gli occhi grandi e un sorriso allegro; essere come lei sarebbe stato fantastico. Ben presto però mi resi conto che la mia era una scelta infantile. Non potevo essere Raffaella Carrà e così optai per modelli più vicini a me.
Rossella fu l’ultima e la più amata, anche perché con lei avvenne la svolta; piano piano il bisogno di essere un’altra mi abbandonava, o, più precisamente, si trasformava nella ricerca di approvazione e nel timore del giudizio altrui.
Ci siamo conosciute ai tempi delle scuole medie, lei faceva la terza mentre io ero in prima; ero la piccola, quella che guarda la più grande con la consapevolezza ammirata di non poter aspirare a tanto. In fondo, proprio come adesso; lei continua a parlare delle meraviglie della sua vita e io l’ascolto, partecipo, anche se dentro sono altrove. Ma non posso essere diversa con lei: è come se mi trascinasse indietro, mi rigettasse dentro al senso di inadeguatezza dell’adolescenza.
Per non deluderla ho avuto il mio primo fidanzato di cui, in realtà, non sentivo gran bisogno; era basso, biondo e con la faccia da bambino, però simpatico, spigliato e, soprattutto, suonava divinamente la chitarra. Lei, che fa tutto in modo esagerato, lo ammirava senza ritegno e, non volendolo per sé, anche non saprò mai il perché, brigò e intrigò finché non riuscì a metterci insieme. Avevamo entrambi dodici anni e ci davamo casti baci sulle labbra con la bocca rigorosamente chiusa.
Solo che il mio attaccamento ben presto lo mise in fuga, verso lidi di maggior leggerezza, con conseguente cuore infranto, il mio chiaramente. Qualche settimana più tardi, forse impietosita dalla mia disperazione da abbandono, Rossella confessò di essere stata un ablativo, disse proprio così, un ablativo, perché già da allora era sempre sopra le righe. Alludeva al suo ruolo di complemento di mezzo, poiché, avendogli fatto conoscere una misteriosa cugina molto carina, il fatuo chitarrista aveva pensato bene di liberarsi di me, peraltro tardivamente e senza neppure il coraggio di dirmelo. Insomma si era vilmente eclissato. Chissà se da grande è diventato il classico stronzo, certo, già allora prometteva bene.
Dopo una cosa del genere, l’amicizia fra me e Rossella avrebbe dovuto quanto meno vacillare, invece no, perché non potevo perdere anche lei; inoltre, ad alleggerire la sua colpevole posizione, intervenne rapidamente la notizia che la liaison con la cugina non era poi decollata e il biondo con la faccia da bambino era scomparso dai radar. No, non mi è mai venuto in mente che Rossella potesse provare un senso di inferiorità nei miei confronti, in fondo brillante a scuola quanto lei e certamente più carina, come suggerì, molti anni dopo, la mia psicologa. Impossibile. Il mito era lei e io la gregaria.
Ora si alza e m’invita fuori a fumare; usciamo mentre diluvia, ci fermiamo al riparo della pensilina del ristorante. Approfitto dello stacco e inizio a parlare di me, del mio lavoro di successo, di mia figlia che vola con la sua ginnastica, del mio divorzio. Fuma di gusto, mentre mi ascolta assorta. Sento che sto pareggiando i conti, o almeno ci vado vicino; ma il solo fatto di pensarlo, mi ricaccia nella posizione che mi spetta, quella subordinata.
Quando le dico di Andrea, del nostro allontanamento prima, della separazione poi, della mia nuova vita, mi pare animata da una curiosità un po’ malevola, anche se si limita ad annuire in silenzio. Mi dico che, in fondo, tutto questo deve sembrarle banale gossip di gente ordinaria.
Le sigarette sono finite, rientriamo e ordiniamo il dolce. Mi racconta della sua ultima trasferta in Sudamerica, con l’entusiasmo di sempre, gesticola, sorride, è come se riempisse lo spazio di immagini, di suggestioni, ma sembra che l’intermezzo sentimentale che ho imposto, abbia infiacchito il discorso, lasciando nell’aria un’ombra di malinconia.
Vorrei fumare ancora, ma non mi va di uscire di nuovo sotto la pioggia; mi giro verso l’entrata per capire se ha smesso e lo vedo. Quello è Andrea, ne sono sicura, anche se è di spalle, lo riconoscerei tra mille. Non è impossibile incontrarsi in un ristorante se si vive nella stessa città, ma, in otto anni di separazione, non è mai accaduto. Una rara coincidenza. Si gira, ci vede, viene verso il nostro tavolo per salutare. Non so perché, ma non ne sono contenta. Rossella finalmente tace, ma lui non saluta, mi fissa senza parlare, poi si siede accanto a lei, le prende la mano, si guardano.
Non piove più. Cammino in fretta mentre vado alla macchina. I fanali accendono di luce la strada bagnata, ma sui muri nessuna immagine di me, nessuna ombra sull’asfalto, nessun riflesso nelle vetrine. Non mi vedo. Stasera la casa mi sembrerà più grande.
Quando lui non mi guarda,
cerco la mia immagine
sul muro. E vedo solo
un chiodo, senza il quadro.
(versi tratti da “Accanto a un bicchiere di vino” di Wisława Szymborska)
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