Gli aspiranti


Stuoli. Stuoli di aspiranti scrittori. Flora se li immagina, stipati come sardine, lungo gli ameni vialetti che circondano Villa Paradiso, sede della Grande Scuola di Scrittura, mentre, un ginocchio a terra e l’altro piede spinto all’indietro, come ai blocchi di partenza di una corsa, attendono il momento fatidico in cui il sacro portone si aprirà e la gara avrà inizio.

Metaforicamente parlando, s’intende. In realtà stanno più probabilmente sul divano di casa, o alla scrivania, o in auto, il PC o lo smartphone accesi, il dito ormai anchilosato nello sforzo dell’attesa, perché il taumaturgico click potrà essere rilasciato soltanto dopo lo scoccare della mezzanotte; veloci però, mi raccomando, perché solo ai primi tre click della giornata sarà concesso l’incredibile sconto del 3% sulla faraonica tariffa a tre zeri, con due cifre davanti, prevista per sei, e dico sei, weekend di istruzione, al termine dei quali, finalmente, ci si potrà a buon diritto fregiare dell’ambito titolo: non di scrittore, s’intende, ma di ex allievo della Grande Scuola.

Che poi si tratta della proposta base, intendiamoci, quella destinata agli over trenta, insomma una specie di corso di recupero per quegli aspiranti attempati che, passata la trentina, ancora arrancano in cerca del successo, praticamente rottami umani, ripetenti quasi senza speranza. Ed è in quel “quasi” che sta la differenza, è lì che si insinua l’illusione e prospera il business; è lì che mette radici l’orgoglio della prima lezione, interamente dedicata a spiegare ai novizi come nulla, mai, per nessun motivo, dei metodi e dei contenuti delle lezioni, dovrà trapelare all’esterno, pena l’estromissione con disonore dal gotha degli ex allievi. Non scherziamo.

O, almeno, così si favoleggia. Perché Flora non conosce personalmente nessuno che abbia frequentato la Grande Scuola e tutto ciò che sa al riguardo l’ha scoperto in rete, dove naviga da anni per orientarsi nell’incredibile e ostile mondo degli aspiranti scrittori.

Ecco il primo rintocco della mezzanotte, dal campanile in lontananza; Flora controlla il cellulare e affida all’etere il suo click, augurandosi miglior fortuna dei tentativi precedenti, tutti miseramente falliti. Poi appoggia la nuca sul divano, per rilassare il collo irrigidito dalla tensione, prima di trascinarsi a letto con quel senso amarognolo di umiliazione che la coglie ogni volta. “Possibile che debba essere necessaria questa pantomima per un miserabile 3% di sconto?” protesta una vocina in un angolo del suo cervello. Lei la zittisce, rimproverandosi il peccato d’orgoglio. Inizia così l’attesa, in cui si consuma, del resto, gran parte della vita degli aspiranti scrittori perché, in un modo o nell’altro, c’è sempre qualcosa da aspettare, qualcosa che di solito è in ritardo o, più spesso, non arriverà per niente.

Flora ha iniziato ad aspirare prima della fine del liceo, ma allora quella del libro era solo un’idea astratta; durante il secondo anno di università ha scritto di getto il suo primo romanzo e, al momento della laurea, da scolara diligente, aveva già lavorato di cesello, con correzioni e riletture, tanto da ritenere di avere per le mani un prodotto finito. Ora occorreva soltanto trovare un editore. E che ci vuole?

Dopo la precoce dipartita del marito, mamma Lucia si era presa in casa la sorella più grande e loro tre erano diventate una famiglia. Mamma era un’insegnante di lettere delle medie, di quelle buone che sembrano le madri dei loro alunni, mentre zia Rosina era un tipo originale, per non dire matta come un cavallo: parlava da sola dandosi del lei, rifuggiva lo sgabuzzino delle scope, sostenendo che gli attrezzi di pulizia godessero di vita propria e aveva paura del water, perché era certa che dentro ci abitasse un grosso topo che poteva toccarle le parti intime con le sue zampette disgustose mentre era seduta sulla tazza per le sue necessità.

A parte questo, Rosina era una zia affettuosa e in cucina non aveva rivali. Sosteneva di fare la pittrice, ma nessuno l’aveva mai vista dipingere, non possedeva pennelli e nemmeno colori, né esistevano suoi quadri da qualche parte, però le piaceva dirlo: pittrice, insomma un’artista; in realtà si occupava della casa, della spesa, del bucato e, pur con qualche riluttanza, anche delle pulizie.

Mamma Lucia e zia Rosina adoravano Flora e l’avevano incoraggiata in tutti i modi nelle sue ambizioni letterarie, anche quando, dopo la laurea e in attesa di pubblicare il suo romanzo, aveva rinunciato al concorso per l’insegnamento, certa di un brillante futuro da scrittrice, per poi ripiegare, ma solo temporaneamente s’intende, su un posto part time da educatrice d’infanzia presso il nido Mago Merlino, dove le davano una paga da fame, ma il contatto coi bambini piccoli le dava ispirazione.

Da allora le aveva provate tutte; aveva cominciato, con fiduciosa disinvoltura, inviando il suo romanzo ai grandi editori, senza ricevere mai nessuna risposta; navigando in rete e partecipando a diversi gruppi e forum sull’argomento, aveva scoperto che gli editori odiano gli aspiranti scrittori e fanno di tutto per tenerli alla larga. Perciò, se qualcuno di loro rende noto un indirizzo email per l’inoltro dei manoscritti, si può stare certi che si tratta di uno specchietto per le allodole e gli invii finiranno tutti direttamente nello spam. Resta il mistero di come si procurino le decine di libri che pubblicano annualmente, ma questo è un altro discorso.

Senza perdersi d’animo, nonostante le lunghe attese infruttuose, Flora si era allora rivolta alle agenzie letterarie, per scoprire che anche gli agenti odiano gli aspiranti scrittori, che pure dovrebbero essere i loro clienti naturali, e a nessuno di loro passa nemmeno lontanamente per la testa di leggere un manoscritto per poi valutare se presentarlo o meno a un editore, che pure dovrebbe essere il loro mestiere. Sono invece molto attrezzati per i famosi percorsi di valutazione: un’epifania di proposte differenziate, che vanno dalla semplice lettura veloce (?) alla totale riscrittura del testo, con proporzionali crescenti tariffe. Questi percorsi dovrebbero orientare l’autore circa il valore della sua opera ed eventualmente indirizzarlo verso interventi migliorativi. Per poi comunque lasciarlo lì, spennato e sempre senza un editore.

Da scolara diligente qual era sempre stata, Flora si sottopose di buon grado, una prima volta, al giudizio di questi sconosciuti agenti letterari che promettevano supporto professionale in vista del perfezionamento del suo manoscritto e fu con grande emozione che, finalmente, dopo più di due mesi di attesa e un bonifico da brivido autorizzato al momento dell’ordine, fece uscire dalla stampante, perché per leggere le serviva la carta, le sei cartelle della scheda di valutazione, chiudendosi poi in camera sua, per sorbirle, speranzosa, come nettare dal fiore.

Immaginate quale fu la sua delusione quando si accorse, incredula, che, fino alla quarta cartella compresa, si trattava in realtà di un riassunto parecchio dettagliato del suo stesso romanzo, forse la prova che l’avevano letto veramente! Ma quale beneficio poteva mai trarre l’autrice dal condensato della propria opera, rimasticata e riproposta con altre parole, dato che l’aveva scritta lei? Forse la certezza che il testo fosse comprensibile? Non pareva gran cosa, specie a quel prezzo e, se si aggiungono almeno tre o quattro strafalcioni di italiano e qualche errore di battitura, era chiaro che la valutazione risultava un’esperienza sommamente negativa.

Non volendo arrendersi, Flora, come gli amanti respinti, si addossò gran parte della responsabilità: in fondo, per risparmiare qualche centinaio di euro, aveva scelto un’agenzia di livello medio-basso, che probabilmente impiegava lettori esterni alle prime armi per pagarli di meno, perciò decise che ci avrebbe riprovato e, questa volta, senza badare a spese.

Il secondo salasso fu una cosa seria, l’attesa ancora più estenuante della prima e l’esito, purtroppo, non molto diverso. La scheda di valutazione era più lunga, è vero, ma scritta con un’interlinea talmente ampia che in ogni pagina potevano esserci sì e no sedici righe e, dopo il solito riassunto del suo romanzo, che occupava i primi sei fogli, con apprezzabile professionalità, era stato inserito uno schema prestampato che riportava, in bell’ordine, gli ulteriori servizi fruibili presso l’agenzia, coi relativi scandalosi prezzi riportati a fianco: editing stilistico o strutturale, correzione di bozze, impaginazione, grafica per copertina e persino ghost writing. C’era solo l’imbarazzo della scelta. Da nessuna parte, neppure per sbaglio, si citava l’ipotesi di presentare l’opera a un editore, nemmeno per escluderne categoricamente la più remota possibilità.

Abbattuta ma non sconfitta, Flora si immerse di nuovo nella rete, cercando di carpire qualche altro segreto di quel misterioso mondo editoriale che sembrava respingerla con gommosa pervicacia, nonostante la sua buona volontà e la disponibilità ad aprire il portafoglio e scoprì con stupore, tra le altre cose, che la sua aspirazione a raggiungere la notorietà per aver scritto un bel libro era davvero un’idea bizzarra, poiché era chiaro a tutti, tranne a lei evidentemente, come fosse necessario dapprima diventare famosa, magari con qualche balletto idiota sui social o, se proprio non sapeva ballare, postando i sempreverdi video di gatti e, soltanto dopo, in base al numero di follower acquisiti, pubblicare un libro che sarebbe andato certamente a ruba.

Certo, giunta a questo punto, Flora avrebbe dovuto ragionevolmente pensare che il suo manoscritto fosse davvero troppo scadente per essere pubblicato e mettersi il cuore in pace. Tuttavia, nelle schede ricevute dalle agenzie letterarie, non c’era alcuna stroncatura del suo lavoro, né alcun giudizio negativo; al contrario, nelle quattro righe finali in cui cautamente si azzardava una specie di valutazione, questa era, in entrambi i casi, se non lusinghiera quanto meno incoraggiante, probabilmente allo scopo di indurre all’acquisto di qualche ulteriore servizio per migliorare l’opera. In ogni caso, prima di arrendersi, Flora decise di vendere cara la pelle.

Fu allora che, per fortuna, scoprì le scuole di scrittura, e bisogna precisare che, alle sue orecchie, il termine “scuola” aveva un che di rassicurante che le ridava fiducia, dato che la sua carriera scolastica era stata molto positiva e le aveva lasciato in eredità una inesauribile inclinazione allo studio e all’apprendimento di cose nuove. Le scuole di scrittura pullulavano ormai in ogni città e anche in provincia, per non dire delle infinite proposte online, praticamente si poteva contare una scuola di scrittura ogni tre, quattro cittadini al massimo, calcolando anche gli analfabeti funzionali e quelli di ritorno e c’erano offerte per tutte le esigenze, accomunate da un’unica caratteristica trasversale: i prezzi assolutamente proibitivi. Ma, questa volta, si disse Flora, non si sarebbe fatta fregare. O il meglio, o niente.

Così, prese a frequentare il sito web della Grande Scuola di Scrittura, quella più nota, la più importante del paese, fino a conoscere a memoria tutte le proposte, i tempi e i costi, dopo di che, trattandosi di un investimento che avrebbe dovuto restituire a rate alla banca almeno fino alla fine dei suoi giorni, si concesse un po’ di tempo per valutarne la fattibilità e per digerire l’umiliazione di vedersi comunque precluso l’accesso al mitico percorso triennale, poiché, avendo da poco compiuto trentun anni, non poteva più annoverarsi tra le giovani promesse. In sostanza, come aspirante scrittrice, stava appassendo senza mai essere fiorita. Si consolò dicendosi che, in ogni caso, non avrebbe potuto permetterselo.

Ma quando scoprì la possibilità di uno sconto del 3% sul corso di sei weekend riservato agli over trenta, sentì che nulla era perduto e che quella sarebbe stata la sua grande occasione, nonostante, anche calcolando la promozione, l’esperienza le sarebbe venuta a costare come un’auto di media cilindrata. Ma quel 3% la faceva sognare, le sembrava finalmente il piede nella porta, per evitare che le venisse di nuovo chiusa in faccia.

E ora eccola lì, distesa nel buio, sfinita ma senza sonno, a supplicare l’universo di mandarle finalmente un poco di fortuna e di donarle la forza di aspettare i prossimi tre giorni, sì perché la promozione del 3% sembrava ideata da un sadico psicopatico con la fissazione per il numero tre e prevedeva che lo sconto fosse applicato ai primi tre che, dopo la mezzanotte, avevano effettuato più velocemente l’iscrizione, la quale veniva riproposta ogni tre mesi, con ufficializzazione dei tre fortunati entro tre giorni.

Trascorse le ore successive come uno zombi; adducendo una feroce emicrania, non si era presentata al lavoro e si aggirava per casa senza meta, con un fazzoletto legato in testa a mo’ di pirata, a coprirle l’occhio sinistro che non sopportava la luce. Mamma e zia sospettavano qualcosa, ma rispettavano la consegna del silenzio, finché, scaduto anche il terzo giorno senza che nessuna lieta notizia giungesse a consolare la sua desolazione, Flora si tolse il fazzoletto dalla testa, si ficcò sotto la doccia bollente, si vestì e pettinò di corsa, poi si fiondò al Mago Merlino, per chiedere qualche giorno di ferie.

La mattina dopo prese il treno delle cinque e trenta con lo spirito pionieristico dei Padri pellegrini, più che mai decisa a marciare sulla Grande Scuola di Scrittura. Nella borsa di tela, oltre alle decolleté tacco dodici, per eventuali quanto improbabili occasioni eleganti, aveva infilato soltanto un cambio e le sue preziose quattrocentoventisei pagine stampate in formato A4, con eroico e definitivo sacrificio della stampante a getto d’inchiostro che, già a partire da pagina cento, aveva iniziato a dare preoccupanti segnali di affaticamento, rantolando come un malato terminale e surriscaldandosi come fosse sul punto di esplodere.

Andare personalmente alla Scuola poteva apparire una decisione poco razionale, in quanto tutte le informazioni erano reperibili sul sito ed eventuali operazioni di iscrizione potevano tranquillamente essere effettuate online, eppure si sentiva animata da un fermo proposito che intendeva assecondare e, ben presto, i fatti diedero conferma alla logica del suo gesto.

La Grande Scuola di Scrittura aveva sede nella Villa denominata Paradiso, recentemente ristrutturata e riportata agli antichi splendori grazie alle laute tariffe pagate dagli aspiranti scrittori. La Villa sorgeva all’interno di un grande parco pubblico, una porzione del quale era di sua esclusiva pertinenza ed era delimitata da una recinzione in ferro battuto, montata su un muricciolo di pietra, che ne segnava il perimetro.

Flora non si meravigliò della catena umana, certamente composta da aspiranti, che circondava interamente l’inferriata, anzi, ben presto si rese conto che quelli a ridosso del parco privato erano i posti più ambiti, tanto che, per non privarsene, i fortunati che li avevano conquistati, trascorrevano lì anche le notti, chi accomodato dentro un cartone, chi come un senza tetto qualsiasi o arrangiato con un sacco a pelo. Non appena qualcuno desisteva e gettava la spugna, c’era già un altro pronto a subentrare, mentre un paio di tizi dall’aria intraprendente gestiva la lista d’attesa e assegnava i posti. C’era chi leggeva, chi mangiava, chi guardava il cellulare, chi giocava a carte.

Oltre quel perimetro umano che si snodava a ridosso della recinzione, altri stazionavano nei pressi, nella zona limitrofa del parco pubblico, sulle panchine, in terra, o sotto gli alberi; c’era chi camminava senza meta, qualcuno fumava, qualcuno scriveva al PC. I più fortunati, piazzati lungo il perimetro, guardavano gli altri con la soddisfazione di chi ce l’ha fatta e tutti sembravano in attesa di qualcosa, ma di cosa, esattamente?

«Sei nuova?» l’apostrofò uno con la barba, gli occhiali e la faccia da bibliotecario. Perplessa, fece cenno di sì con la testa. Lui assunse l’aria del veterano, poi la redarguì con voce ferma: «Niente stronzate eh? Non possiamo permettercelo, il Comune manda i vigili a controllarci un giorno sì e l’altro pure, perciò non bisogna esagerare. Profilo basso e poco casino. Tu chi cerchi?» Lei lo guardò interrogativa, senza rispondere.

Il bibliotecario alzò gli occhi al cielo. «Andiamo proprio bene! Non sai neanche chi cerchi? » La cosa pareva divertirlo, mentre Flora era sempre più disorientata. Non aveva idea di cosa aspettarsi da quella trasferta, sapeva solo che voleva vedere la Grande Scuola coi suoi occhi, respirare la stessa aria che respiravano gli allievi ricchi e fortunati che presto sarebbero stati scrittori famosi, chissà, forse sperava che i loro apprendimenti si potessero attaccare per via aerea come la varicella. Insomma un mucchio di idee confuse e senza senso.

Il barbuto sembrava averla presa in simpatia e le fece cenno di seguirlo verso una panchina dotata di schienale, dove pareva aver organizzato il suo quartier generale e dove l’accolse sussiegoso, indicandole di sedersi, neanche l’avesse invitata sul divano di casa. Si vedeva che moriva dalla voglia di mostrarle tutte le sue competenze e Flora non aveva che da guadagnarci a stare a sentire quel che aveva da dirle.

L’uomo si accese una sigaretta tirando il fumo con forza, l’aria da cinico seduttore d’altri tempi, alla Humphrey Bogart in Casablanca e poi cominciò a parlare, mentre lei, senza perdere una parola e senza staccare gli occhi da lui, aveva tirato fuori il cartoccio preparato da zia Rosina e sbocconcellava piano piano il panino più farcito di tutti i tempi.

Venne fuori che l’obiettivo vero di chi frequentava la Grande Scuola solo apparentemente era lo studio di metodi e tecniche di scrittura creativa; in realtà, lo scopo inconfessabile dei più era un altro: essere notato e, soprattutto, essere ricordato, in modo che un domani, quando avesse avuto nel cassetto qualche paginetta degna di attenzione, potesse esserci da qualche parte uno scrittore, un docente, un editor, un correttore di bozze o persino un impiegato della segreteria, cui potersi rivolgere per ottenere un occhio di riguardo, uno straccio di speranza, o anche solo la certezza di non finire direttamente nello spam. Altrimenti perché spendere tutti quei soldi?

E qual era il modo più semplice per farsi notare? Collegare il proprio nome o la propria faccia a qualcosa di eclatante e straordinario, che ne impedisse l’immediato e inevitabile oblio. Per questo, e non perché le Muse si dilettassero a possedere le menti degli aspiranti scrittori, capitava di udire grida belluine lungo i corridoi, di incontrare persone travestite non si sa da cosa o da chi, o finanche di vedere due chiappe nude appiccicate ai vetri della finestra del laboratorio di dialoghi e monologhi, al primo piano. Per farsi notare, solo per farsi notare. Flora era sbalordita.

E se questi metodi le parevano grossolani, continuò il barbuto, doveva sapere che il piano della Scuola, per tenere a bada gli aspiranti scrittori, era davvero diabolico: non solo vietavano a tutti di raccontare cosa accadeva durante le lezioni, ma sequestravano i dispositivi mobili di qualunque tipo, in modo che non potessero esistere audio, né video, né alcun altro genere di traccia che potesse essere memorizzata. Tanto quanto gli allievi desideravano essere ricordati, altrettanto gli insegnanti operavano per cancellare qualunque segno del loro passaggio, rigettandoli nell’oblio dove dovevano stare, non appena terminata la frequenza. Insomma, era una guerra.

Poi c’erano gli esterni, cioè quelli come loro, che non avevano ottenuto un posto nei corsi o non potevano permetterselo e quelli erano i peggiori, perché davvero disposti a tutto. Presidiavano la Scuola per giorni e settimane, allo scopo di intercettare qualcuno all’ingresso o all’uscita; braccavano i docenti nel giardino o nel parcheggio, tendevano agguati agli ospiti famosi, ma si accontentavano di chiunque bazzicasse l’ambiente. L’obiettivo di minima era strappare qualche secondo di attenzione al primo malcapitato che riuscivano a bloccare, per presentarsi con nome e cognome prima che il poveretto riuscisse a divincolarsi e fuggire, per poi perdere qualsiasi ritegno e gridargli dietro le proprie generalità, mentre quello si allontanava di corsa, nella speranza che non potesse dimenticarsene. Si raccontava che qualcuno fosse riuscito a consegnare un biglietto con un titolo provvisorio, o persino l’incipit del proprio romanzo; si favoleggiava di chi avesse ottenuto addirittura un numero di cellulare; ma erano solo leggende metropolitane che circolavano per la disperazione dei miserabili questuanti, non c’era da crederci.

Persino le signore delle pulizie erano attenzionate dagli aspiranti; loro però, dotate di maggior senso pratico, anziché cercare di sottrarsi al gioco, come i docenti, si erano organizzate, stabilendo precise tariffe, non proprio modiche, per le loro prestazioni: cento euro per dimenticare su una certa cattedra un biglietto con nome e cognome dell’aspirante o il titolo della sua opera e prezzo raddoppiato per il secondo tentativo, il terzo non era ammesso; centocinquanta euro per riciclare di nascosto qualcosa ch’era già finito nel cestino della carta; per una raccomandazione verbale con un pezzo grosso, magari raggiunto appositamente alla macchinetta del caffè, si poteva arrivare anche a duecentocinquanta, ma erano ben spesi, perché quelle delle pulizie sapevano il fatto loro.

Quella sera stessa, Flora prese il treno per tornare a casa e mentre il vagone la cullava col rumore ipnotico delle ruote di ferro sui binari, pensava alle sue ambizioni letterarie, alle sue amate quattrocentoventisei pagine in A4, che pesavano nel borsone di tela e che nessuno avrebbe mai letto, a quel mondo folle che avrebbe voluto abitare e che invece l’aveva masticata e risputata senza neppure accorgersi di lei. Sentiva un nodo che si scioglieva dentro e un poco le veniva da piangere, ma non voleva.

Mamma Lucia e zia Rosina dormivano da un pezzo quando entrò in punta di piedi facendo del suo meglio per non svegliarle: non aveva nessuna voglia di raccontare o dare spiegazioni. L’indomani uscì presto e si presentò al Mago Merlino, dicendo che quei giorni di ferie non le servivano più.

La mattina dopo aveva il turno di mezzogiorno ed era andata al lavoro in bicicletta, ma l’aria era ancora fresca e le si erano congelate le mani; mentre se le fregava per scaldarle, entrando all’asilo, le venne incontro, come una furia, l’educatrice Marialina della sezione lattanti, i capelli dritti come una pazza e gli occhi fuori dalle orbite, in braccio un bimbo piccolo che strillava con tutta la forza dei suoi giovani polmoni.

«Questo è Filippo, ha sei mesi, è nuovo, il pediatra dice che è sanissimo, ma è da stamattina che piange e io non ce la faccio più!» gridò concitata, depositandole in braccio il piccolo che scalciava e si dimenava, tutto rosso per lo sforzo, per poi sparire in fondo al salone, lasciandola lì come una scema. Flora sentiva freddo alle mani e aveva ancora addosso il cappotto e le scarpe. Guardò il musetto stravolto dal pianto del piccolo urlatore, poi, tenendolo col braccio sinistro e servendosi del destro, prese camice e zoccoli dal suo armadietto, riuscì a cambiarsi, e infine si diresse verso il laboratorio di musica che aveva le pareti insonorizzate.

Durante tutte queste operazioni, piuttosto complicate con un bambino in braccio, prese a declamare a voce alta l’incipit del suo libro, di cui conosceva a memoria le prime trenta o quaranta pagine; parlare con tono basso e continuo, come noto, può avere un certo effetto tranquillizzante, se non sui neonati urlanti almeno sugli adulti infelici a cui hanno appena rifilato una grana da gestire e che stanno per perdere la pazienza; così continuò a recitare il primo capitolo mentre camminava cercando di calmare il piccolo urlatore.

Non avrebbe saputo dire esattamente quando fosse accaduto, ma sta di fatto che, a un certo punto, Filippo smise di piangere e più lei lo guardava, continuando a declamare il suo romanzo, più lui la fissava come ipnotizzato e si tranquillizzava, mentre il suo corpicino, poco prima scosso da singhiozzi disperati, pian piano ritrovava un respiro regolare. Fu un bel pomeriggio e l’umore di Flora si rasserenò; tornò a casa con la sensazione di un successo professionale. Non quello che aveva desiderato, certo, ma pur sempre una soddisfazione.

La cosa si ripeté il giorno dopo e quello dopo ancora, perché alle sue colleghe non pareva vero di aver trovato rimedio ai pianti disperati del piccolo, finché una mattina la mamma di Filippo aveva voluto conoscerla, per scoprire il suo segreto e Flora le aveva confessato la verità, non senza un certo pudore che le pareva persino un po’ ridicolo. Incuriosita, la donna le aveva chiesto il permesso di filmarla, mentre, camminando col bambino in braccio, declamava il capitolo uno e Filippo si calmava smettendo di strillare come un ossesso. Il video, caricato in rete, fece già la prima sera migliaia di visualizzazioni. E non fu che l’inizio.

Flora non era contenta di quella notorietà non richiesta e il video non le piaceva: lei appariva come una specie di Cenerentola con camice, zoccoli e coda di cavallo, e non le andava a genio che il suo libro, la sua creatura tanto amata che doveva farla entrare nell’universo letterario, venisse associato a una pratica per calmare un neonato che piange. Non c’entrava nulla, il suo era un romanzo serio, con protagonisti adulti, non una favola della buonanotte, insomma lei voleva fare letteratura, non addormentare bambini; che poi, di sicuro, era la sua voce a placare Filippo, non certo il capitolo uno. Come potevano essere così stupidi da non capirlo?

Nonostante il suo disappunto, il video con la Tata declamante diventò virale e, in capo a un paio di settimane, Flora fu contattata da un Grande Editore che, senza neppure avere visto, né tanto meno letto, il suo romanzo, le assicurò di essere in dirittura d’arrivo per la vendita dei diritti editoriali all’estero, in trentadue paesi per la precisione e di avere già concluso con un produttore cinematografico che aspettava solo il suo via libera per realizzare una serie TV. Lei doveva soltanto mettere una firmetta sul contratto: famosa lo era già, ricca lo sarebbe stata presto. Il volume avrebbe avuto come sottotitolo “La storia che calma i più piccoli” e l’autrice sarebbe comparsa con uno pseudonimo che richiamasse la sua professione, una roba come Tata La Nanna o magari in inglese, Nanny La Nanna, che fa più figo.

Flora era in un abisso di smarrimento e prostrazione e non sapeva che pesci pigliare: rifiutare era come dare un calcio alla fortuna, ma accettare che senso aveva? A nessuno interessava quello che aveva scritto e, una volta tramontato l’interesse effimero per un improbabile libro che calma il pianto dei bambini, cosa le sarebbe rimasto? Chi si sarebbe ricordato di lei, nascosta dietro uno pseudonimo ridicolo? Come avrebbe potuto scrivere il suo secondo libro? Ci sarebbe stato un futuro per lei come scrittrice? O avrebbe dovuto girare subito un video con perle di puericultura, battendo il ferro finché era caldo, come le suggerivano le colleghe del Mago Merlino?

Quella sera, zia Rosina aveva fatto la pizza e la pizza di zia Rosina era così buona che le avrebbe portato consiglio. Durante la cena, mentre mamma e zia cercavano di distrarla conversando come se nulla fosse, squillò il telefono e Rosina si precipitò in salotto a rispondere con la curiosità infantile che ogni telefonata le suscitava. Riapparve un attimo dopo sulla soglia per chiamare Flora: era per lei.

Flora disse “pronto” con un filo di voce e una strana sensazione in fondo allo stomaco; era niente di meno che il Direttore della Grande Scuola di Scrittura in persona. Si palesò sciorinando nome composto e ben tre dei suoi numerosi cognomi, nonché il titolo dei suoi libri più famosi, giusto per presentarsi, poi, senza darle tempo di interloquire, la coprì di complimenti, definendo la sua opera un vero caso letterario, nonostante, al momento, gli sfuggissero titolo e trama ma, che diamine, i creativi sono soggetti a lapsus della memoria, si sa. Lei provò a mormorare qualcosa a mezza voce nella cornetta, ma lui non le diede il tempo e riprese subito la parola, concludendo col proporle niente meno che la cattedra di Storytelling del corso triennale della Grande Scuola di Scrittura, un incarico molto ambito e prestigioso di cui elencò tempi, modi, benefit e compenso, senza dimenticare l’ospitalità gratuita per i fine settimana di lavoro. Quarantotto ore per decidere.

Stordita, Flora tornò a tavola barcollando leggermente, come se avesse preso una botta in testa, mentre mamma e zia la fissavano con occhi grandi come uova. Si sedette, addentò la pizza che aveva nel piatto e prese a masticare lentamente, come una mucca che rumina l’erba, perché le sembrava di avere qualcosa di molto grosso da mandare giù. Intorno non volava una mosca. Mamma e zia non fiatavano, le fissavano la bocca in silenzio, in attesa che l’aprisse per esprimere il verdetto. Fu in quel momento preciso che seppe con certezza di essere diventata una grande scrittrice.


Attento a ciò che desideri perché potresti ottenerlo.
(Oscar Wilde)