Rileggere un classico


Il Gattopardo è ambientato in Sicilia, protagonista è una famiglia della più alta aristocrazia isolana, al tempo della caduta dei Borboni e della formazione del Regno d’Italia. Il principe di Salina assiste al declino della nobiltà feudale a cui appartiene e all’emergere di una borghesia cittadina, volgare e arricchita, svelta a saltare sul carro dei vincitori in camicia rossa, ma in fondo solo ambiziosa di farsi essa stessa aristocrazia. La parabola esistenziale del principe, che volge al termine, si fa metafora del disfacimento della sua classe sociale, ma l’uomo osserva la Storia e si osserva in essa, con sguardo disincantato e disilluso, col fatalismo e la rassegnazione della sua terra, avvolta in un’indolenza, che cela forse un antico senso di intima superiorità verso l’ennesimo invasore. La celebre massima, pronunciata da Tancredi, amato nipote del principe, giovane pragmatico e opportunista, ovvero «tutto deve cambiare affinché nulla cambi» è solitamente intesa come la chiave di lettura di tutto il romanzo, tanto da aver dato luogo al termine “gattopardismo” per intendere l’atteggiamento di trasformismo, proprio di chi, avendo fatto parte del ceto dominante o agiato in un precedente regime, si adatta a una nuova situazione politica, sociale o economica, simulando d’esserne promotore o fautore, per conservare il proprio potere e i privilegi di prima. Secondo una lettera dell’autore a un amico, la chiave di volta della narrazione sarebbe invece più propriamente la figura dell’alano Bendicò, il cane del principe: fedele custode di castelli e salotti, ma anche velocissimo cacciatore, rappresenta, di volta in volta, la vita o la morte, la stasi o il moto, la contraddizione tra ciò che muta e ciò che persiste, fino al finale del libro, quando è trasformato in «un mucchietto di polvere livida», nonostante l’imbalsamazione con cui si è tentato, inutilmente, di conservarlo per tanti anni dopo la sua morte.