Ho riletto “Il prete bello”, di Goffredo Parise; recentemente ripubblicato da Adelphi, è uscito nel 1954 e qualcuno lo ha definito il primo best-seller del dopoguerra. Non so se può definirsi un classico, ma in un panorama letterario contemporaneo spesso ripiegato sull’autofiction, la capacità di Parise di dare corpo e voce a due ragazzini e ai miserabili abitanti di un caseggiato miserabile nella Vicenza del 1940, ha il respiro della letteratura che non si dimentica. I piccoli delinquenti protagonisti della storia, Sergio e Cena, con l’innocenza dell’età e il disincanto della strada, spiano i vizi, le atrocità, le ridicole bassezze e le viltà degli adulti e dei fascisti e, mossi da una fame atavica, approfittano delle debolezze altrui per trarne qualche utilità, per sopravvivere e non rinunciare a qualche testardo sogno infantile, come il possesso di una bicicletta. Nonostante la spaventosa miseria e la povertà educativa e culturale di una provincia profondamente ignorante e bigotta, asservita al fascismo, il romanzo non ha il taglio di impegno civile tipico del neorealismo, né un impianto banalmente ideologico: riesce a raccontare l’ingiustizia, la meschinità umana e persino la fame e la morte, senza perdere un’ironia che non è irriverenza, ma, al contrario, rispettosa narrazione della realtà. Lo stesso Don Gastone, il prete bello, attorno al quale ruota tutto il resto, che seduce donne e uomini in quanto emblema dello spirito del tempo, finirà per rivelarsi per ciò che è, un personaggio ridicolo, falso, miserabile, come il regime che si gloria di servire. La narrazione è filtrata dallo sguardo infantile e così il caseggiato e il cortile dove si svolge la storia e brulicano i personaggi, hanno un’apparenza quasi fiabesca, di nascondiglio, di labirinto, e le vicende raccontate, anche quelle più tragiche, conservano la poetica semplicità di chi si affaccia per la prima volta ai dolori della vita. La miseria e l’ingiustizia sociale sono lo sfondo, e restano impressi come un retrogusto amaro.
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