Raccontaci come nasce Il dono di Iris e quale è stata l’ispirazione principale da cui è scaturita la storia
Ho sentito spesso gli scrittori parlare dei propri personaggi come di creature dotate di una vita propria, e l’ho sempre trovata un’affermazione un po’ sopra le righe. Invece, con Teodora, la mia protagonista, è stato proprio così: lei è venuta a trovarmi alla fine della pandemia, forse frutto di un certo bisogno di leggerezza, e me la sono ritrovata nella mente già del tutto formata, con un’immagine e un carattere definiti, piuttosto insistente nell’attirare la mia attenzione. Ci siamo piaciute, e ho iniziato a scrivere di lei. Il tempo della sua storia, gli anni Cinquanta del Novecento, mi ha permesso di rovistare fra i ricordi di mia madre e di mia nonna, le foto, le storie di famiglia, per costruire il contesto. Il mio intento era un racconto lieve, fiabesco, e grande è stato il mio stupore quando il giudizio professionale dei primi lettori è stato invece molto diverso, con aggettivi come “potente e significativo” e ancor di più mi ha meravigliato la scelta dell’editore Robin di pubblicare il romanzo nella collana Le Giraffe, quelle che “si nutrono dei fogli più alti”. Non posso che esserne lusingata. Del resto è sempre difficile giudicare le proprie creature. In ogni caso, spero che una cosa non escluda l’altra, perché lieve e potente insieme sarebbe perfetto.
A quale genere letterario appartiene?
Sicuramente non a uno solo. Con i generi letterari me la cavo malissimo, perché non mi pare così necessario mettere etichette: capisco che la classificazione possa orientare i lettori, ma i libri che leggo, (tanti, perché sono una lettrice accanita) raramente si possono inserire in un genere specifico. E così anche per “Il dono di Iris”. È un po’ romanzo di formazione, perché segue l’evoluzione personale della giovane protagonista; c’è una vena di giallo, con omicidio e conseguente indagine; c’è una pennellata di realismo magico, nel retaggio di streghe ereditato da nonna Iris, c’è un tratto di critica sociale, in particolare per la condizione femminile dell’epoca; insomma, credo ci siano diverse contaminazioni. Una mia lettrice affettuosa (e sicuramente di parte) l’ha definito un mix di rosa e noir: non so se è una definizione precisa, forse descrive più l’atmosfera che il contenuto, ma mi piace e la sottoscrivo.
Parlaci della protagonista Teodora
Teodora Villasanta è una maestra precaria e appassionata, che si occupa di bambini con difficoltà; è un’idealista mossa da un forte desiderio di emancipazione, in aperto contrasto con lo spirito del suo tempo, che vorrebbe la donna relegata tra le mura di casa. Si indigna di fronte alle ingiustizie e non si arrende davanti alle difficoltà; ama i balli americani, detesta lo struscio e le formalità del corteggiamento. La madre non si dà pace di saperla ancora nubile a ventisette anni, mentre il padre dà credito ai sogni della figlia, che, più di tutto, vuole lavorare ed essere indipendente. Il suo rapporto con gli uomini è ancora in costruzione: ama sentirsi rispettata e trattata alla pari, apprezza la cultura e le affinità intellettuali, e i suoi sensi le mandano chiari segnali di rispondenza al fascino maschile; tuttavia si trattiene, spaventata all’idea che anche l’uomo più progressista possa alla fine chiuderla in gabbia. Nelle vene di Teodora scorre il sangue della nonna, dalla quale ha ereditato un dono potente e antico, legato alla natura e alla sua magia, alle premonizioni oniriche e alla divinazione, un dono che da un lato la rende orgogliosa, dall’altro la lascia perplessa, in ogni caso la induce a tenere per sé il suo segreto.
Quale atmosfera caratterizza il romanzo?
La narrazione è attraversata da un’atmosfera di lievità fiabesca, ma non racconto un mondo inventato, come avviene nel fantasy; al contrario, tutto è molto reale e concreto, e, all’interno di questo contesto realistico, si inseriscono elementi inaspettati, che lasciano spazio all’irrazionale, inteso come legame con l’antico e con la natura. Ci sono poi atmosfere diverse, più lucide e ironiche, in particolare nelle pagine dove si affrontano, in trasparenza, argomenti di critica sociale. Ho voluto scrivere una storia con la leggerezza della fiaba e la profondità dei temi senza tempo, mescolando i piani, per suggerire una riflessione senza perdere la leggerezza. Così, nel romanzo, il richiamo di un antico retaggio di streghe, con la sua atmosfera da fiaba antica, si intreccia con lo spirito degli anni Cinquanta del Novecento, affamati di futuro, e i due filoni narrativi si contaminano, facendo, della vicenda della protagonista, la metafora del crocevia fra passato e futuro, fra antico e moderno, fra campagna e città che caratterizza quegli anni della nostra storia.
Quale altro personaggio credi possa essere particolarmente apprezzato dai lettori?
Ho caratterizzato tutti i personaggi del romanzo, anche quelli secondari, dando loro una personalità precisa, ma, certamente, quello più presente nella storia e più vicino alla protagonista è Pietro Caffarelli, che esercita su di lei un grande fascino sicuramente ricambiato, anche se non se lo sono mai confessato. Pietro ha gli occhi d’oro dei gatti e le mani lunghe da pianista, unisce interessi intellettuali e passione civile, fa con entusiasmo il bibliotecario e scrive: un saggio che non vede mai la luce e qualche articolo sul giornale locale. È schivo e gentile, si tiene alla larga dai luoghi più frequentati della città, il circolo, la chiesa, le case chiuse, e, nonostante abbia passato la trentina, non ha ancora preso moglie, cosa che, assieme alle sue idee politiche, è oggetto di pettegolezzi in città. Come Teodora, è un’idealista che spera in un mondo più giusto, è affidabile e appassionato e rappresenta l’uomo nuovo, moderno, capace di un rapporto rispettoso e paritario con le donne.
Il libro contiene diverse tematiche fra cui la libertà, l’amore, le gabbie sociali, i sogni…
Ho ricostruito la realtà degli anni Cinquanta nella provincia dell’Italia settentrionale, contesto e sfondo delle vicende della protagonista. Siamo in un periodo di forte urbanizzazione e abbandono delle campagne, e ci sono importanti fermenti di novità: i primi passi della giovane Repubblica e della sua Costituzione, il voto alle donne, l’avvento del consumismo e di un benessere sconosciuto, la possibilità di immaginare nuovi stili di vita; ma c’è anche un vecchio mondo duro a morire, con tutta la resistenza e l’ostilità di un conservatorismo radicato, rurale e povero, di un analfabetismo diffuso, di una concezione arcaica della società e del ruolo femminile. Il posto della donna nel mondo risente ancora del conformismo del ventennio fascista e dei suoi principi patriarcali, che la vedono solo moglie e madre, e qui si innesta il tema del rapporto fra uomini e donne, nella sua dimensione sociale ma anche privata, attraverso i sogni e le aspirazioni delle ragazze di allora; poi c’è la parte più pubblica, dai bambini difficili inseriti in classi scolastiche differenziali, alle forze dell’ordine che sono i fascisti di prima. Gli spunti di riflessione non mancano, ma, nel raccontare, ho usato soprattutto l’ironia, senza nessun intento saggistico.
Come si è evoluta la tua scrittura nel corso del tempo?
Sicuramente oggi, quando scrivo, mi fido di più di me stessa. Ho acquisito padronanza di tecniche narrative che in passato ho utilizzato in modo più istintivo; ho lavorato molto sui dialoghi e sui sacri precetti “Show, don’t tell” e “Less is more” perché, come diceva il mio prof. del liceo, tendo ad avere una prosa “manzoniana”, ovvero abbondante. Ho sicuramente sperimentato un’evoluzione rispetto alla struttura narrativa del romanzo, nella scelta dei punti di vista della narrazione: il mio primo libro, “Il canto dell’oca”, è un flusso di coscienza in prima persona, in cui la protagonista racconta la sua relazione tossica dal finale dolceamaro; il secondo, “Quartetto per voci soliste”, è l’alternarsi dei punti di vista dei quattro protagonisti della storia, mentre “Il dono di Iris” ha una struttura più classica, col narratore terzo onnisciente e la presenza, nella prima parte, di piani temporali differenti. Detto così sembra molto tecnico, ma, in realtà, scegliere una struttura narrativa rispetto a un’altra, aiuta a dar forma all’idea, che è pur sempre l’inizio di ogni racconto.
Le opere che scrivi presentano numerosi personaggi: come scegli le figure che popolano la tua narrativa?
I tipi umani sono molto interessanti e l’ispirazione per la creazione dei personaggi, inutile negarlo, è sempre la realtà; ma dalla realtà si possono rubare alcuni spunti, non la figura tutta intera; intorno a quelle suggestioni lavoro di fantasia, accentuando alcuni aspetti, modificandone altri, inventando qualcosa di sana pianta, quando è utile alla narrazione. Anche per i personaggi vale il principio “Show, don’t tell”, perciò cerco di presentarli come fossero attori che entrano in scena a teatro, ovvero in azione, indugiando il meno possibile sulla descrizione vera e propria e insistendo invece su quello che dicono o fanno e su come lo dicono o fanno: sulla comunicazione, in particolare, anche quella non verbale, lasciando che il lettore possa costruirsi la sua immagine del personaggio, colmando gli spazi bianchi che lascio. Mi pare che funzioni.
A chi consiglieresti Il dono di Iris e perché?
A tutti, ovviamente! Non ho scritto pensando a un lettore ideale e non saprei identificarlo precisamente. Per me, la scrittura è uno spazio libero, come lo è la lettura: sono una lettrice onnivora e forse immagino che il mio lettore possa essere un po’ come me: curioso e aperto, uno che non legge soltanto un genere o solo gli autori noti, per intenderci. “Il dono di Iris” ha molte sfaccettature, è sicuramente l’ibridazione di generi diversi, quindi credo che lettori differenti possano trovarci qualcosa di intrigante. Scrivo storie che mi piacciono, metto in scena situazioni che mi permettono d’indagare un altro tempo e un altro luogo, rapporti e sentimenti, il riso e il pianto, le nascite e le morti, la vita, insomma. Nella scrittura metto la mia autenticità e credo che essere autentici favorisca l’originalità dell’opera. Forse scrivo quello che vorrei leggere; certamente scrivo per chiunque voglia leggermi.
Quale è stato il momento più gratificante della tua “carriera” di scrittrice fino a ora?
Quello che non è ancora arrivato, naturalmente. In realtà, non userei la parola carriera per definire la mia esperienza, perché è un termine che mi ricorda il lavoro organizzato e ha in sé l’idea di un progresso verso l’alto. Anche se “Il dono di Iris” è il terzo romanzo che pubblico, per me la scrittura è sempre una sperimentazione, così come lo è muoversi nel complesso mondo dell’editoria; cerco di farlo con assoluta professionalità, s’intende, ma non mi pongo obiettivi di carriera, anche se, chiaramente, mi piacerebbe avere tanti lettori. I momenti più gratificanti che ho conosciuto finora sono stati quelli della pubblicazione, una situazione sempre molto emozionante, che corona il lungo percorso iniziato da un’idea; ed è molto gratificante anche il confronto con i lettori, come avviene nelle presentazioni, perché mi permette di sperimentare in diretta l’avvenuto distacco da me della creatura-libro e di prendere parte al suo viaggio nel mondo reale. Una grande soddisfazione.
L’intervista completa è disponibile ai seguenti link
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