Oh William!


“Oh William!” è un romanzo autoconclusivo, ma è anche l’epilogo della trilogia di Lucy Barton, che ritroviamo, in queste pagine, sessantenne scrittrice affermata e affrancata, almeno in apparenza, dalla miseria emotiva e fisica nella quale è cresciuta. Vedova da un anno, dopo la morte per malattia dell’amato secondo marito David, la donna è alle prese con le sue vicende intime e quotidiane, ed è rimasta in buoni rapporti col primo marito William, padre delle sue figlie, al quale si riavvicina.

Nel riprendere il filo del loro rapporto, mai davvero interrotto del tutto, non c’è alcuna intenzione romantica; del resto, entrambi hanno preso altre strade: William ha avuto una figlia con la terza moglie, e Lucy sta ancora tentando di trovare un’identità nel mondo. Nonostante il successo e la sicurezza economica, infatti, continua a sentirsi invisibile, ancorata al passato di deprivazione della sua infanzia, da cui l’ha salvata la sua passione per la scrittura e la lettura, che le ha permesso di ottenere una borsa di studio e andare al college.

William è in un momento molto difficile della sua vita: la sua carriera accademica di scienziato ha perso lo slancio e il suo terzo matrimonio, con una donna di molti anni più giovane, comincia a fare acqua.  Quando la moglie lo lascia improvvisamente, William chiede a Lucy di accompagnarlo in un viaggio nel Maine, per indagare su certe misteriose vicende di famiglia, e lei non si tira indietro.

Durante il viaggio, viene fuori un segreto dell’infanzia di William, e si fa luce sulla ricorrente depressione della madre e sulla sua giovinezza: prima dell’incontro con il futuro padre di William, infatti, la donna aveva avuto un precedente matrimonio, dal quale era fuggita di notte, senza valigia né bagaglio, divisa tra l’impazienza di unirsi al suo nuovo amore e la paura di essere scoperta.

Durante il matrimonio con William, Lucy aveva sofferto molto la presenza dell’ormai defunta suocera, donna agiata che giocava a golf e le prestava con condiscendenza le sue camicette, presentandola agli estranei come la ragazza che “è venuta su dal niente”, senza preoccuparsi di aggravare così il suo già pesante senso di inadeguatezza.

Il viaggio nel Maine rivela inaspettatamente come, dietro l’apparente facciata di donna benestante, la suocera nascondesse una realtà ben diversa, ovvero la provenienza dallo stesso ambiente sottoproletario di Lucy, e come la sua ascesa sociale, negli anni ‘30 del Novecento, fosse dovuta soltanto alla sua sfacciata e provocante bellezza, in grado di procurarle un marito ricco, come rivalsa della miseria emotiva e della deprivazione fisica subite nella prima parte della vita.

Il viaggio che William e Lucy intraprendono e lo strappo emotivo seguito alla rivelazione dei segreti del passato, svela a entrambi la resistenza del loro legame al rancore e ai tradimenti di quando erano ancora sposati. Insieme si confessano i torti subiti e le ferite reciprocamente inflitte, con il distacco che dà l’aver imparato ad accettare la fallibilità del rapporto di coppia, le bugie mascherate dalla paura di cambiare o di restare soli. L’analisi del loro rapporto finisce per diventare l’accettazione dei rispettivi limiti, nella certezza che ormai non devono più mentirsi e possono volersi bene.

Lucy, che non ha mai smesso di avere l’ex marito tra i suoi affetti, standogli vicino, ripercorre la loro storia familiare e di coppia, da come si sono conosciuti e amati, alla nascita delle figlie, ai rapporti con le famiglie d’origine. E, durante il viaggio, Lucy scopre molto anche di sé: in particolare l’infanzia, le origini poverissime e il contesto culturale e sociale disagiato, la madre anaffettiva e distante, riemergono dal passato e lei, che gode ora di stabilità economica e prestigio lavorativo, cerca di fare i conti con i fantasmi di quel tempo lontano.

Tra ricordi, impressioni e riflessioni, raccontati da Lucy senza ordine cronologico né sequenziale, emergono gli avvenimenti connessi ai rapporti tra i due, dalla nascita alla rottura del loro rapporto, senza comunque che la separazione, a distanza di molti anni, cancelli una sorta di intimità che porta ciascuno a cercare la presenza dell’altro quando i fatti della vita e il trascorrere dell’età rendono più fragili. Un viaggio, quello dei due protagonisti, verso le radici dell’uno e dell’altra, per condividere ancora e appoggiarsi ancora, dentro esperienze emotivamente coinvolgenti, tra «passati che non passano mai davvero».

“Oh William!” è anche un vivido ritratto della provincia americana, ma è soprattutto il racconto di temi universali narrati con essenzialità e garbo, attraverso il vivere quotidiano, le sue sfumature e ogni piccolo accadimento, anche il più insignificante.

Il risultato è un racconto strutturalmente frammentario, che, unendo i pezzi come le tessere di un puzzle, ripercorre il passato e dà senso al presente, con stile leggero, scorrevole e colloquiale, e allo stesso tempo intenso. C’è una specifica delicatezza, una gentilezza particolare nell’esprimere anche i sentimenti più duri e dolorosi.

Elizabeth Strout sa essere trasparente e parlare di temi che fanno paura, come la solitudine in età avanzata, senza mai diventare angosciante. E tuttavia, la trattazione di argomenti complessi e personali con uno stile che privilegia i fatti e le piccole cose, rimanendo alla superficie delle riflessioni, e con un linguaggio asciutto ed essenziale, rappresenta a mio parere un limite, perché priva la scrittura di autentico pathos e rischia di trasformare la semplicità in semplificazione.

Mi piace, invece, la confidenza che si respira in queste pagine, quasi il racconto sussurrato di fatti, di vita, dalla voce diretta di un’amica, con la sua visione compassionevole degli altri esseri umani sui quali posa uno sguardo lucido e affettuoso, parlando certamente dei suoi protagonisti, ma anche, o soprattutto, di sé stessa e di tutti noi.