Risplendo non brucio


Ilaria Tuti ha un’affinità con l’inferno. Dopo avere letto questo suo ultimo romanzo, e i precedenti della serie della commissaria Teresa Battaglia, mi sento di scriverlo. E le auguro di cuore che si tratti “solo” di una dimensione letteraria, perché è davvero brava a trascinare il lettore nelle atmosfere inquietanti che sa costruire, con grande maestria, nelle sue storie. Funziona anche con il lettore più riluttante: parlo di me che non amo gialli, horror e simili, ma subisco il fascino di questa autrice, i cui libri, del resto, non sono così facilmente catalogabili e sfuggono alle etichette tradizionali.

Questa volta, lo scenario angosciante e spaventoso è storico ed è pertanto ancora più nero. Siamo nel dicembre del ’44, Hitler ha appena subito un attentato ed è rinchiuso nel castello di Kransberg, in Assia, preda della paranoia e del terrore della fine. A Trieste, intanto, come nel resto dell’Italia del Nord, si sopravvive a stento tra bombe e proiettili, la fame e il freddo, la violenta occupazione nazista e il filo fragile della Resistenza, nel terrore quotidiano della Gestapo, dell’incertezza di chi potersi fidare, nell’angoscia di poter essere in qualunque momento accusati di qualcosa, seviziati e rinchiusi o uccisi, senza alcuna possibilità di difesa.

I protagonisti sono due; Johann Adami, luminare di medicina legale, che, per non essere sceso a compromessi e aver rifiutato il fascismo, è internato a Dachau, dove teme che la parte bestiale di sé, emersa in quell’orrore e necessaria per sopravvivere, possa prendere il sopravvento sulla sua natura più vera, quella “di prima”, il suo spirito colto, aperto, umano. Il suo è un coraggio raro. Che però ha distrutto la sua famiglia.

L’altra protagonista è la figlia Ada, rimasta a Trieste, anche lei medico, che maledice la scelta del padre, per quello che ha significato nella sua vita, ma che, in fondo, gli somiglia molto, anche lei ostinata a restare umana e incapace di piegarsi. A maggior ragione ora che ha un segreto da nascondere a ogni costo.

Inaspettatamente, Adami viene fatto uscire dal campo, trascinato a Kransberg e obbligato a un’indagine sulla morte di un giovane militare, che potrebbe essere suicidio o forse no; Hitler in persona, ossessionato dalla possibilità di un nuovo attentato, prigioniero delle sue allucinazioni tra le mura del suo bunker, ha voluto lui, un prigioniero senza diritti, una bestia senza nome, contando sulla sua estraneità a possibili trame di palazzo.

A Dachau, Adami non è più un professore, e forse nemmeno un uomo: ha lasciato ogni speranza entrando, secondo il verso dantesco, ed è diventato bestia, guidato solo dall’istinto animale di conservazione, disposto a tutto pur di sopravvivere, rigettato in una ferina natura primordiale, concentrato soltanto sulla fame. I diavoli di questo inferno sono assassini che raccontano l’orrore come una fiaba, per suscitare paura e obbedienza, ma non possono togliergli il suo sapere, la forza dell’intelligenza.

Rispetto all’indagine, Adami in realtà non ha scelta, poiché a Trieste è rimasta Ada, merce di scambio della sua obbedienza; perciò accetta, nonostante l’enigma gli sia odioso, anche perché sa che la sua parte bestia agogna di poter respirare fuori dal campo, e la sua natura umana può ritrovare nuova energia nel rimettere all’opera la mente.

Veil Seidel è l’ufficiale SS che preleva Adami, lo conduce a Kransberg e vigilerà sulla sua indagine, obbligandolo a una corsa contro il tempo, in un ambiente tutt’altro che amichevole o collaborativo, nonostante il mandato ricevuto dal Führer in persona.

Seidel è un ex studente di Adami, è stato lui a fare il suo nome, e fra loro, nonostante i ruoli di oggi, cui ciascuno si attiene senza sconti, emerge a tratti il rapporto tra l’insegnante deluso per la strada di violenza imboccata dall’allievo, e il disprezzo dell’allievo per l’uomo di cultura, il mentore che ha rifiutato il mondo in cui lui, invece, ha fede; ma la vicenda in cui entrambi si trovano coinvolti ribalta i ruoli, e la vittima dovrà salvare il suo carnefice.

Nel frattempo, Ada è più che mai sola: non ha più suo padre, catturato dai nazisti e portato chissà dove, del quale, da allora, non ha avuto notizie; non ha più un compagno, scomparso insieme ai partigiani in fuga; ha soltanto la sua professione medica, che svolge con passione e dedizione, e che le permette qualche piccola libertà di movimento e i contatti con molte persone. È proprio la vicenda di una sua giovane paziente, che la induce a occuparsi di un assassino di donne che agisce intorno alla Risiera di San Sabba, l’unico campo di concentramento in Italia dotato di forno crematorio, luogo di orrore e di terrore che ammorba la città con le sue mefitiche esalazioni di morte.

Sono indagini complesse quelle che, in parallelo e all’insaputa l’uno dell’altra, compiono il professor Adami e sua figlia Ada, rese più impervie dai contesti in cui sono costretti a muoversi: per lui addirittura il castello bunker del Führer, per lei la Risiera di San Sabba e il mondo torbido e allucinato che le ruota intorno. Le scene del crimine sono alterate, i testimoni sono reticenti, gli indizi sono stati manipolati o forse costruiti ad arte, per depistaggio, e, nella ricerca della verità, bisogna sempre evitare di scontentare chi comanda, per cercare di proteggersi da probabili vendette e rappresaglie.

Nonostante le difficoltà e la paura, l’indagine rappresenta per entrambi un’esperienza di trasformazione: il professore trova alleati insperati, e scopre che, tra tanti demoni, possono nascondersi anche angeli dalle mani sporche, votati alla libertà. Ada inizia a comprendere il padre, perché, nonostante si fosse ripromessa di tenersi al sicuro, si ritrova invece a fare proprio ciò di cui lo incolpava: esporsi in prima persona mettendosi a rischio.

L’inferno di Ilaria Tuti ha il fetore del sangue e della carne bruciata, il lezzo della disperazione e dell’abiezione: è un mondo allucinato, violento e disumano, spoglio, cupo e sporco, pieno di scheletri e di corpi violati, abitato da diavoli e fantasmi. Un inferno a cui è impossibile sottrarsi, che non consente di conservare alcuna purezza d’intenti, perché negare la propria essenza umana, rimuovere dalla mente il proprio nome, è l’estrema difesa davanti alla violenza della progenie nera del Führer.

La trama, devo dirlo, mi pare in alcuni punti azzardata, al limite della credibilità; ma la costruzione di un racconto nero e carico di tensione, dove i protagonisti si muovono sullo sfondo di un inferno privo di qualsiasi umanità, nello scenario di una città buia, ferita e spogliata di tutto, sul filo continuo dell’angoscia di essere smascherati o venduti, è davvero abilissima e coinvolgente.

La scrittura di Ilaria Tuti è densa di emozioni e descrive con vivida precisione le paure e le sofferenze di chi viveva sotto l’oppressione nazista. Ma nel romanzo c’è un ulteriore piano di approfondimento, che, intrecciando con garbo le vite di Johann Adami e di sua figlia Ada, esplora sia la dimensione intima della perdita e del dolore, sia la forza straordinaria dell’animo umano.

Nonostante le ombre e le tenebre, i sotterfugi e la paura, le sevizie e gli orrori che i diavoli di questo inferno in terra riescono a creare, una fiammella di speranza nella più profonda e benigna natura dell’uomo resta miracolosamente accesa, se si ha il coraggio di non rinunciare alla propria integrità. Luceo non uro, risplendo ma non brucio.